Giapponesi insultano la memoria della Cina

“Cani giapponesi” (“日本狗”): così gli abitanti della Cina amano definire gli abitanti del Sol Levante, per ricordarne la crudeltà, l’efferatezza e la vigliaccheria dimostrate con i crimini di guerra compiuti invadendo l’Asia continentale negli anni Trenta e Quaranta del Novecento.

Appellativo che l’attuale amministrazione nipponica fa di tutto per consolidare: lungi dal rinnegare le scelte delittuose effettuate ai danni di popolazioni inermi, in occasione del 68esimo anniversario della resa alle forze alleate i leader politici del Sol Levante lanciano provocazioni ingiustificabili.

L’appello rivolto alla vigilia da parte del Ministero degli Esteri cinese a “operare un’attenta riflessione sulle aggressioni e agire con il buon senso che ne dovrebbe conseguire, al fine di guadagnarsi la fiducia delle nazioni vittime e della comunità internazionale” è stato del tutto ignorato.

Anche questo ferragosto, come peraltro ogni anno, i capi politici nipponici hanno insultato la memoria cinese (e non solo) recandosi in visita al tempio di Yasukuni per commemorare i caduti del Secondo Conflitto Mondiale, tra cui 14 criminali di guerra di classe A. Shang Jun (尚军), redattore dell’agenzia di stampa cinese Xinhua (新华), scrive che “tali visite, sommate a una serie di provocazioni recenti ascrivibili ai politici destristi nipponici, ìndicano con evidenza che il Giappone non è in grado di compiere una riflessione approfondita sulla propria storia di aggressioni e sta invece sperperando i frutti della riconciliazione postguerresca”.

Santuario di Yasukuni

“In qualunque forma – così Hong Lei (洪磊), portavoce del Ministero degli Esteri cinese – e a qualsivoglia titolo i capi politici giapponesi visitino il tempio, tale azione costituisce un tentativo di negare la storia delle proprie aggressioni e glorificare il proprio militarismo, sfidando gli esiti della Seconda Guerra Mondiale e l’ordine internazionale scaturitone. A questa condotta si oppongono con fermezza e condanna unanime la Cina e gli altri Paesi asiatici”.

“Sul Giappone – Min Hyeon-ju, portavoce del partito di Governo sudcoreano Saenuri, commenta – grava un punto di domanda e torna ad aleggiare lo spettro del militarismo passato. La visita al tempio Yasukuni è un affronto alla Corea del Sud”. Preoccupazioni per l’estremismo della destra giapponese sono state espresse anche da altri partiti e organi di stampa sudcoreani.

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A rendere ancor meno tollerabile la condotta nipponica, le azioni, da alcuni studiosi definite “nazionalistiche”, del premier Shinzo Abe.

Questi non solo ha inviato al tempio un’offerta votiva, ma anche, ciò che è più grave, nel pronunciare un discorso ufficiale ha omesso di esprimere dispiacere per i crimini di guerra perpetrati dall’esercito giapponese ai danni dei civili cinesi.

Egli ha poi evitato di ricorrere alle formule diplomatiche “profondo rimorso” e “sincero rimpianto” usate dai suoi predecessori, tralasciando altresì d’impegnarsi, di nuovo in rottura colla tradizione, affinché in futuro il suo Stato non scenda in guerra. Partecipando assieme all’imperatore Akihito a una cerimonia commemorativa nella capitale Tokyo, il primo ministro giapponese ha invece sottolineato il proprio rammarico per non potersi essere recato a Yasukuni nemmeno nel corso del suo primo mandato nel 2006-7.

Shinzo Abe

Stando a un sondaggio, una visita al tempio da parte del capo del Governo sarebbe supportata dal 56% dei giapponesi, che appare dunque diviso pressappoco a metà tra nuovi nazionalisti e non, tra i quali ultimi alcuni hanno persino partecipato alla cerimonia commemorativa delle vittime del massacro di Nanchino (南京/Nanjing), tenuta nel capoluogo del Jiangsu (江苏) sempre il 15 agosto 2013.

Il massacro di Nanchino fu uno dei più efferati crimini di guerra perpetrati dalle truppe nipponiche ai danni del popolo cinese: dal 13 dicembre 1937 per sei settimane i militari occupanti torturarono, stuprarono e uccisero civili nanchinesi. A questo crimine si aggiungono i campi di concentramento in territorio cinese dove venivano deportati i prigionieri, sottoposti poi a ogni genere di efferatezza.

Il comportamento del Governo nipponico ha suscitato l’indignazione di quello cinese, che ha convocato Masato Kitera, ambasciatore giapponese a Pechino, per esprimergli le proprie rimostranze tramite Liu Zhenmin (刘振民), viceministro degli Esteri. Tra i giapponesi c’è anche chi, come Shin Kawashima, direttore del gruppo di esperti virtuale CSIS-Nikkei, sprona Giappone e Cina a rammendare i propri rapporti ricordando il 35esimo anniversario del Trattato di Pace e Amicizia sinonipponico, caduto il 12 agosto di quest’anno.

Sottolinea anche l’importanza che i membri del Gabinetto edochiano trattino la questione di Yasukuni con prudenza. In una lettera ad Abe pubblicata sul Japan Times, J. F. van Wagtendonk, presidente della fondazione dei Debiti Onorari Giapponesi con sede all’Aia, in Olanda, ha richiesto al premier nipponico di riconoscere le responsabilità guerresche del suo Paese: “Lei non può passare tale onere ai suoi e agli altri figli del Giappone”.

 

“La Costituzione tedesca di Weimar si trasformò, senza che ce ne s’accorgesse, in quella dei nazisti. Perché non impariamo dalle loro tattiche?” (Taro Aso, vicepremier e ministro delle Finanze giapponese).