La crisi in Siria, lo shale gas, la base di Tartus e le verità nascoste

Quella della crisi siriana raccontata dai media sembra una storia romanzesca, dove, come ogni romanzo che si rispetti, c’è sempre il buono e il cattivo. Questa volta però le sfumature di questi personaggi rimangono grigie e poco definibili dagli stessi media.

Nonostante la miriade di servizi sull’argomento non è ancora chiaro chi sia il vero cattivo della vicenda. Così a prima vista Assad è quello che i media hanno accostato più facilmente al ruolo.

Ma prima di stabilire la correttezza di questa conclusione è doveroso tracciare un ragionamento piuttosto largo e di ampie vedute sull’argomento.

Gli Stati Uniti hanno raggiunto un anno fa l’autosufficienza energetica grazie alla tecnica dello shale gas. Cosa sarebbe? Come sappiamo bene, fino a qualche anno fa, quando si parlava di gas, si intendevano i giacimenti di gas naturale da cui viene estratto il gas mediante delle trivellazioni.

La nuova scoperta consta invece nell’estrazione del gas intrappolato nelle rocce del sottosuolo, le cosiddette scisti, formazioni rocciose del sottosuolo ricche di gas. La novità sta nell’estrazione. Se per i giacimenti tradizionali bastava raggiungere il serbatoio nel sottosuolo, nel caso dello shale gas è necessario fratturare queste rocce per fuoriuscire il gas interno. Gli Stati Uniti hanno brevettato un modello che se pur costoso è efficace per farlo, il cosiddetto “fracking”, ovvero la fratturazione idraulica determinata da notevoli flussi d’acqua.

Ora, tralasciando le polemiche sorte negli Stati Uniti per le relazioni con l’inquinamento atmosferico (il metano che fuoriuscendo comprometterebbe ancor di più l’effetto serra) e con i terremoti che si potrebbero determinare, gli Usa si sono avviati verso l’autosufficienza energetica, scatenando un effetto domino che annovera tra le sue conseguenze l’instabilità del mondo medio orientale.

La trasformazione in paese esportatore di energia ha consentito al governo americano di trattare con maggiore flessibilità i disordini in Medio Oriente, come confermato dall’ex direttore della Cia Deutch, il quale ha ribadito che ” è giunta la fine della dipendenza degli Stati Uniti da regioni politicamente instabili”. Ora in cosa si traduce questa indipendenza energetica?

Anzitutto gli Stati Uniti possono perseguire il loro obiettivo: esportare la democrazia si traduce in un sistema atto a sbarazzarsi di regimi illegali, legati alla vecchia concezione stalinista dell’economia, eredità del socialismo sovietico importato nella zona araba. Il guadagno che si prospetta è quello di un mercato ampio e pronto ad ospitare nuovi investimenti delle imprese americane, una prospettiva irrealizzabile fino a qualche anno fa in ragione del diffuso anti-americanismo islamico.

D’altronde è stato lo stesso Joe Biden, vicepresidente americano, ad affermare che “sacrificare vecchi amici come Ben Ali, Mubarak, Saleh, e tradizionali nemici come Gheddafi e Assad in nome del libero mercato è una scelta obbligata per Washington”.

Un cambio di rotta dovuto alla maggiore flessibilità americana, slegata da dipendenze energetiche e in grado di decidere perseguendo i propri scopi. Una situazione che inevitabilmente ha provocato l’insorgenza di tensioni tra gli Stati Uniti e gli storici alleati dell’Arabia Saudita. I due paesi hanno un’alleanza geo-strategica dal 1945, quando l’allora re Saud promise la priorità assoluta agli Stati Uniti per lo sfruttamento petrolifero. La nascita di queste tensioni sono una novità assoluta per i nuovi equilibri geopolitici.

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Una situazione che ha visto gli Stati Uniti indisposti per un intervento diretto all’inizio della crisi siriana,  determinando le esplosioni di rabbia dei sauditi, pronti da subito ad un intervento militare del loro alleato storico.

Come scritto da  Cunningham, editorialista nord irlandese per varie testate anglosassoni, il motivo ricorrente nella crisi siriana è la presenza di massacri nei momenti in cui si prospetta un cambio del contesto geopolitico.

Ogni qual volta si discute delle posizioni degli altri paesi in relazione alla Siria ecco giungere una strage. Già le prime sanzioni dell’Onu nei confronti di Assad scattarono solo dopo la strage nel villaggio di Hula del maggio 2012. Questa correlazione messa in luce da Cunningham si arricchisce della scoperta fatta nelle settimane successive alla strage, che dietro il massacro di Hula c’erano invece mercenari armati dagli stessi occidentali, notizia ovviamente trascurata dai media occidentali principali.  Così di quella strage rimangono i drammatici titoli di accusa al despota Assad.

La strage di Hula

Ora, l’attacco con armi chimiche della scorsa settimana segue lo stesso registro secondo Cunningham. L’attenzione dei media occidentali è recente, ma la guerra segreta che si combatte in Siria dura ormai da più di due anni. Una guerra fatta di scontri interni che sembrava aver preso la giusta strada a seguito della fine del regime libico di Gheddafi. Ma in Siria qualcosa è andato storto.

La Siria però non è la Libia e ad oggi a livello militare i tentativi di rovesciamento di regime sono andati falliti. La scelta degli Stati uniti di partecipare indirettamente, con strategie politiche e non militari ha trovato nei sauditi degli alleati insoddisfatti e irritati sul piano politico. Un’alleanza messa a rischio dalla nuova strategia di politica estera americana e che ha imbestialito la corte saudita, sentitasi offesa dopo anni di concessioni e favori petroliferi agli Usa.

Così, secondo Cunningham, l’insorgere di questa tensione  potrebbe spiegare l’uso di armi chimiche vicino a Damasco la scorsa settimana, in cui si afferma che tra le 500 e le 1500 persone sarebbero state uccise dall’esposizione al micidiale agente nervino Sarin.

I media  occidentali naturalmente hanno accentuato le accuse che l’attacco chimico sarebbe stato effettuato dalle forze siriane fedeli al presidente Assad. Per Cunningham invece è più probabile che  l’attacco, se realmente verificatosi, sia stato effettuato dai miliziani stranieri che cercano di rovesciare il governo di Assad.

I precedenti incidenti che comportano l’uso di armi chimiche, come ad esempio l’attacco a Khan al Assal vicino ad Aleppo il 19 Marzo di quest’anno, in cui più di 25 persone sono rimaste uccise, si è scoperto in seguito essere stati compiuti dai mercenari anti-governativi. Non è un caso che i primi a riportare la notizia dell’attacco con armi chimiche siano stati i mezzi di informazione di stato sauditi.

La cosa strana e assurda è che non appena sia scemata l’attenzione mediatica sulla Siria e con essa il supporto occidentale militare ai miliziani, ecco che si è assistiti ad un’escalation di massacri e stragi.  Quello che i media non hanno riferito è delle esecuzioni tra miliziani stessi, con il gruppo Jabhat al Nusra che annovera tra i suoi principali sponsor proprio  il regno saudita.

Secondo Cunningham dunque l’aumento delle azioni terroristiche e il presunto uso di armi chimiche sono un evidente segnale di ricatto del regno saudita, abbandonate a se stesse sul piano militare. Ne è prova il rilancio delle truppe di Assad tornate incalzanti e trionfanti al momento. I sauditi temono di essere lasciati soli e riflettendo su questa paura il re Abdullah sta cercando con ogni mezzo di riportare le forze alleate ad un intervento militare. Obama minacciò l’intervento solo di fronte all’uso di armi chimiche. Bene sembrerebbe essere stato accontentato.

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Ma in tutto ciò non ci si può dimenticare della Russia. Al contrario degli Stati uniti, i russi sono passati da un iniziale atteggiamento di minaccia ad uno più cauto e risolutivo.

Lo scenario è per loro molto più delicato di quello che si pensa. Se gli Stati Uniti possono contare su una flessibilità politica frutto della raggiunta indipendenza economica, i russi al contrario fanno della Siria una zona strategica e decisiva per la loro politica energetica.

Gli accordi recenti siglati con Damasco per lo sfruttamento delle riserve naturali di gas, complice il gasdotto che collega l’Egitto alla Turchia, sono punti cardini nella politica energetica dei russi. Non a caso la base navale di Tartus è divenuta di importanza miliare nelle strategie politiche russe, essendo, lo ricordiamo l’ultimo avamposto militare russo nel Mediterraneo.

A detta di Cunningham il vero peso della bilancia sembrano essere i sauditi, veri outsider della crisi siriana con il solo scopo di sfruttare l’onda della primavera araba a proprio favore come già fatto nel recente passato. La Russia questo lo sa, e infatti non fa degli americani i loro veri rivali in questa faccenda. Secondo fonti del Cremlino Putin è uscito infuriato dopo l’incontro dei primi di agosto con il principe saudita Bandar bin Sultan, reo di aver minacciato i russi se non accetteranno la resa della Siria.

La base di Tartus

La minaccia tradotta in un armamento dei ceceni per i prossimi giochi olimpici invernali di Sochi 2014, è stata confermata dal quotidiano libanese As-Safir, che ha riportato le dichiarazioni del principe Bandar pronto a impegnarsi a salvaguardare la base navale della Russia in Siria se il regime di Assad sarà rovesciato, ma ha anche accennato ad attacchi terroristici ceceni sulle Olimpiadi invernali della Russia a Sochi, se non vi è alcun accordo.

“Io posso dare una garanzia per proteggere le Olimpiadi invernali del prossimo anno – ha detto il principe Bandar -. I gruppi ceceni che minacciano la sicurezza dei giochi sono controllati da noi “. Per questo motivo Putin ha minacciato ad inizio agosto pesanti azioni militari proprio contro l’Arabia Saudita in caso di invasione in Siria. Una minaccia stemperata ultimamente con i riferimenti all’Onu che è un chiaro segnale di possibili accordi raggiunti dai due paesi.

Come riportano da Londra  infatti (sul Telegraph), l’Arabia Saudita avrebbe offerto segretamente alla Russia un ampio accordo per il controllo mondiale del mercato del gas e del petrolio, in sostituzione agli ex alleati americani divenuti autosufficienti. Un accordo che andrebbe in porto solo se Putin darà il suo via libera alla guerra contro Assad. La nuova posizione presa con gli appelli all’autorizzazione dell’Onu sembrano far pensare che l’accordo sia andato in porto.

In un fantomatico romanzo per seguire Cunningham, a  questo punto gli Stati Uniti pur proclamando la propria indipendenza energetica non vorrebbero uscire del tutto dagli interessi del Medio Oriente ed essere sostituiti dalla presenza della Russia, ecco giustificata l’accelerata per l’intervento militare, un tentativo disperato di richiamare a se i sauditi, vero ed indiscusso pendolo delle decisioni. Avevamo accennato ad Assad  come il cattivo della situazione. Siete ancora sicuri di ciò?

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