Facebook e Instagram: manuale per l’uso (sbagliato)

Nella mia breve vita ho conosciuto un discreto numero di miei coetanei e di giovani in generale. Ragazzi e ragazze di qualche anno più grandi e più piccoli di me, con cui sono uscito, ho passato serate, giornate, mattinate, nottate. A qualunque ora, in qualunque posto.

Solita vita di un solito giovane in una solita città. In questi miei pochi anni di autonomia e indipendenza motorizzata (ovvero: vado dove mi pare quando mi pare) ho però conosciuto una metamorfosi in alcune delle persone che frequento.

Primi capelli bianchi? Prime piccole rughe? Primi seni cadenti? Niente di tutto ciò. Cioè sì, ma non è questo il punto. Io la chiamo “sindrome di ingobbimento da smartphone”. Sintomi: sguardo fisso verso il basso, schiena leggermente ricurva in avanti, udito pressoché inesistente, pollici opponibili costantemente frenetici.

Se la persona colpita è in posizione seduta, la patologia è innocua. Se è in posizione eretta e ferma, anche. Se è in posizione eretta ed in movimento, bisogna fare attenzione che non faccia del male a sé o agli altri. Se è alla guida di un veicolo, prega per lei. Chiaramente la patologia non si ferma qui.

Il logo di Facebook

Sì perché fin’ora sono stati descritti i sintomi del soggetto in solitaria. Ma niente è peggio di quando ad essere colpito è un soggetto all’interno di un gruppo di amici o di una compagnia. Persone che un attimo prima stanno raccontando di cosa han fatto la sera prima o dell’ultimo gol di Balotelli ed improvvisamente si fermano, tacciono, chinando lo sguardo verso il basso e cominciando a muovere i pollici senza sosta. Sì perché è così che colpisce la malattia: all’improvviso, da un momento all’altro, senza neanche avvertirti. Puoi solo prevedere quando colpirà, ma non lo puoi dire con certezza.

«Quindi ha segnato di testa o su punizione?»
«Chi? Cosa?»
«Lasciamo perdere».

Ma forse l’errore è mio. Sin da piccoli siamo venuti a contatto con le più svariate tecnologie. Siamo la generazione multitasking. Siamo cresciuti con pc, cellulare e tv, tutti insieme. Forse sono io che non riesco a gestire più di una comunicazione alla volta, più dialoghi allo stesso tempo. Perché di questo – per adesso – si parla. Di dialoghi. Anzi, di più dialoghi alla volta.

Io mi pongo sempre delle domande, quando mi si presentano dei soggetti colpiti dalla sindrome di ingobbimentoSe io sto parlando con qualcuno, interromperei improvvisamente la conversazione per parlare con qualcun altro di un argomento del tutto diverso? Direi di no. Forse per scherzo, forse una volta. Ma basta. Finita lì. E allora perché la gente lo fa di continuo?

Perché magari è un sms urgente! Ok, quanti messaggi urgenti può ricevere una persona al giorno?
Perché la persona che gli/le scrive gli/le interessa più di te! Bene, e allora perché non è presente?
Perché sei noioso e quello che dici non frega nulla a nessuno! Può essere.
Perché sei brutto e ti puzza l’alito! Grazie.

Ecco, io non capisco. Datemi del vecchio, dell’ingenuo, del cagacazzo, ma non capisco. Eppure, lo fanno in molti, quindi o sono io solo che sbaglio, o sbagliano tutti gli altri. Tant’è, rimane il fatto che io sono del tutto immune a questa malattia. Proprio non ce la faccio ad ammalarmi, neanche se voglio. L’unica cosa che posso fare è rimpiangere la gioventù passata. Quella che in molti mi raccontano ma che io non ho vissuto. Quando non c’erano cellulari, smartphone e tablet. E soprattutto, quando non c’era Facebook.

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Facebook è la più grande causa mondiale della sindrome da ingobbimento da smartphone. Colpisce una persona su tre, in qualunque angolo del globo.

Basta essere dotati di un cellulare collegabile ad internet. Ad essere colpiti sono tutti, senza distinzione di età. Cambia solo la frequenza degli attacchi.

Sia chiaro, io uso Facebook quotidianamente. Per studio, “lavoro”, diletto. Per tutto. Ma solo in casa, mai fuori (e come potrei? Il mio cellulare è un Samsung da 30 euro).

E logicamente, anche se avessi uno smartphone con Facebook, perché dovrei portarmelo in giro, quando sono con gli amici? Per studio? Cosa faccio, studio mentre sono al ristorante? Per lavoro? Idem, lavoro mentre sono al bar? Per diletto? E perché, non sono uscito proprio per divertirmi?

«Per condividere, stupido». Questa è la risposta che penserebbe chiunque ma non direbbe mai ad alta voce. Ma condividere cosa? Dove? Quando? Con chi? Una volta lo slogan nella home page di Facebook era tipo “Condividi la tua vita” o qualcosa del genere. Ora è ancora più agghiacciante, come direbbe Conte: “Stai uscendo? Rimani su Facebook!” Ma perché? Ma perché? PERCHÉ uno deve rimanere su Facebook se sta uscendo!?

«Te l’ho già detto! Per condividere, stupido». Va bene, anche io condivido qualcosa. Condivido i miei articoli, le mie canzoni preferite, i fatti di cronaca e/o politica che più mi colpiscono, le foto dei miei concerti, le foto dove vengo più figo eccetera eccetera. Le solite cose. Solite? No! Perché ci sono un sacco di “solite cose” che la gente condivide ma che io, tanto per cambiare, non capisco. Ed ora, ne elencherò alcune.

Esempio di foto “social”

Le foto dei cibi

Questo lo tollero solo per chi cucina per professione o interesse. Sei un cuoco e vuoi farti conoscere? Ottimo. Sei un appassionato e vuoi che la ragazza a cui fai il filo sappia che cucini da Dio per avere una possibilità in più con lei? Ci può stare. Sei al ristorante e la pizza che hai ordinato è incredibilmente farcita? O bella? O a forma di cuore? Bene, cosa dovrebbe significare? Una pubblicità per quella pizzeria? Una cosa che non ti era mai successa? Sei talmente felice che vuoi condividere la tua felicità con tutti? Diamine, è solo una pizza. Metti via il telefono e mangiala, che si fredda.

Le foto in discoteca e/o feste e/o in bagno

Sono fermamente convinto che chi passi il tempo a farsi le foto in discoteca o alle feste o in bagno non si stia divertendo per niente, altrimenti non passerebbe il tempo a farsi le foto in discoteca o alle feste o in bagno. Ma magari a, che ne so, ballare.

Le foto ai figli

Non lo sono, ma posso solo immaginare la felicità che può provare una persona quando diventa genitore. E posso anche capire il fatto che non veda l’ora che altre persone vedano il suo bellissimo pargolo. Immagino parenti, amici e conoscenti. E BASTA. Quindi, quando in bacheca mi ritrovo la foto di un bellissimo pargoletto in fasce, o che gioca a pallone, o che ride inseguendo una farfalla, mi scappa un sorriso, è vero. Ma nello stesso momento prego che queste persone non abbiamo il profilo pubblico, e che le loro impostazioni di Facebook siano ben settate sulla privacy, perché rabbrividisco al pensiero di chi potrebbe vedere quelle foto. E salvarsele.

Le foto delle gambe al mare

Ok siete al mare, ok siete in vacanza. Ok la spiaggia è bellissima. Ma siete davvero sicuri che alla gente interessi vedere uno straccio di mare coperto dai vostri peli o cellulite? Chiedetevelo.

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Foto artistiche by Instagram

Qui è l’apoteosi della mediocrità. La cima della banalità. Il cucuzzolo del ridicolo. Pseudo artisti che scattano pseudo foto a pseudo oggetti con pseudo effetti e ritocchi, ottenendo come risultato una pseudo immagine che non vuol dire niente, ma che è piena di arte ed emozione. Se i fotografi più famosi sono pagati un sacco di soldi ci sarà un motivo. Se gli artisti della fotografia vendono le loro opere a migliaia di euro ci sarà un motivo. Credete che mettere l’effetto seppia a un sasso vi renda artisti? È pur sempre un sasso, e voi non siete artisti. Come mi disse (o meglio, scrisse) un mio caro amico: “Scusa vado che devo instagrammarmi l’ano”.

Il logo di Instangram

La nuova moda dell’Instaweather

Questa inutile app consiste nel fare una foto qualunque (vedi Instagram sopra) che automaticamente verrà arricchita con luogo in cui è stata scattata, data e METEO. Sì, meteo. 24°C Sereno, 19°C Nuvoloso. Oltre all’orario di alba e tramonto. Bene, benissimo! Sei a Ravenna, ci sono anch’io. Ci sono 24 gradi ed è sereno. MA VÀ? Davvero? Anche da me, guarda un po’. Perché, mi chiedo io. Perché.

Ma forse sono io che non capisco un sacco di cose. Le mode vanno, le mode vengono. La gente deve pur passarsi il tempo libero in qualche modo, altrimenti si annoia. La gente ha bisogno di farsi notare, di farsi vedere, di condividere le proprie cose. Eppure lo faccio anch’io, ma proprio non capisco molte delle cose che ho elencato.Cioè non ne vedo il motivo, la necessità. Ma forse non ve ne sono, è solo una cosa fatta così, tanto per fare. Per noia, appunto. O per farsi notare.

Per fare dire a noi – da casa o ingobbiti sul nostro smartphone – «Oh, guarda che bella pizza! Chissà dove l’ha presa? Ma guarda, la Sara è andata a ballare al Cocoricò! Che bello!» Sì, chissà come si sta divertendo, se passa la serata a postare foto dal bagno. Boh, non capisco, e mai capirò. Come non capirò mai tutti questi coetanei che, in cerchio al bar, o in spiaggia, o ovunque, passano momenti in compagnia stando più con lo sguardo rivolto verso il basso, piuttosto che rivolto allo sguardo di qualcun altro/a.

Ma rimane il fatto che Facebook mi regala anche grandi soddisfazioni. Stamattina, ad esempio, dopo una notte di bagordi, apro internet e la prima foto che vedo in bacheca è questa. Grazie, Fiora.

Fabrizio Cilindro (L’Undici)