La primavera delle donne saudite

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In Arabia Saudita, paese a cui Amnesty International ha rivolto accorati appelli perché le donne vengano trattate al pari degli uomini, il re Abdullah bin Abdul Aziz ha deciso di estendere il voto alle donne alle prossime elezioni municipali previste nel 2015.

Una decisione del sovrano alquanto contraddittoria, dato che le donne in Arabia Saudita sono considerate minorenni a vita e per questo motivo non possono uscire senza il consenso del loro tutore che  ha così l’ultima parola anche sul diritto al voto della donna.

“Una ragazza non possiede altro che il suo velo e la sua tomba” , recita un proverbio saudita.  Oggi le donne saudite, anche grazie alle nuove tecnologie che hanno permesso una maggiore libertà di espressione e pensiero, stanno tentando di riprendere in mano la loro libertà, partendo dalle più piccole conquiste quotidiane, come quella di sfidare il divieto di guida: recentemente è stata lanciata su Internet una campagna di protesta e centinaia di donne hanno guidato l’auto per andare a fare la spesa o portare i figli a scuola, documentando la loro personale “battaglia” con dei video e delle foto su face book che le ritraevano al volante.

Sheima Jastaniah, fermata a luglio mentre guidava la sua macchina per le strade di Jeddah, ha rischiato la fustigazione per aver disubbidito al divieto, ma il sovrano ha revocato in seguito la condanna, dando maggiori speranze alle donne di poter cambiare la loro condizione.

Re Abdallah è amato dalle donne perché ha aperto loro le porte dell’università di Jeddah e ha nominato una saudita vice-ministro per l’istruzione femminile, l’unica carica governativa concessa alle donne.

Le mosse del re sono motivate dal timore che il vento rivoluzionario della primavera araba possa arrivare anche in Arabia Saudita, sconvolgendo così il suo regime totalitario: per evitare ciò, re Abdullah ha inoltre distribuito incentivi di denaro ai giovani sauditi.

I provvedimenti decisi fino ad ora dal sovrano risultano ancora essere una goccia nel mare dei soprusi che le donne saudite devono sopportare durante la loro vita: non solo non hanno diritto a guidare l’auto, ma devono avere il permesso del loro tutore anche per lavorare, viaggiare all’estero, sottoporsi a cure mediche. Persino andare in bicicletta risulta essere una pratica vietata.

Questi divieti sono però delle interpretazioni erronee che gli uomini hanno dato alle indicazioni contenute nel Corano.

Secondo la religione islamica, uomini e donne sono uguali agli occhi di Allah con gli stessi doveri religiosi e morali, così come le stesse responsabilità e ricompense nell’aldilà e hanno dei ruoli ben distinti all’interno della famiglia che però non presuppongono un’inferiorità della donna rispetto all’uomo.

Il Corano spiega che l’uomo deve tutelare la donna e garantirle una vita dignitosa; non si accetta nessuna forma di violenza del marito nei confronti della moglie, a vantaggio così del dialogo e della comprensione reciproca.

Sul tema delle violenze in famiglia, Rania Al Baz, volto noto e molto amato del giornalismo televisivo in Arabia Saudita, ha scritto un libro dal titolo “Sfigurata”: nel 2004 la giornalista fu massacrata dal marito che invidiava la notorietà della moglie. Da quel momento Rania ha dovuto sottoporsi a 13 operazioni chirurgiche al viso, completamente sfigurato a causa delle violenti percosse subite.

Rania Al Baz è diventata un’attivista per i diritti civili delle donne in patria e all’estero e sul suo libro denuncia l’ignoranza dei pregiudizi sulla religione islamica: “Non sono stata picchiata per un principio religioso ma per gelosia, da un uomo umiliato. Solo per questo. Coloro che si trincerano dietro l’Islam per giustificare un’azione del genere mentono; coloro che pensano sinceramente che il Corano incoraggi tali pratiche, sbagliano. E’una faccenda di mentalità maschile, niente di più. Il Profeta ha insegnato l’amore, non certo l’odio che oggi viene propagato da alcuni dei suoi zelatori”.

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Il Corano riconosce alla donna una lunga serie di diritti che nelle società pre-islamiche erano del tutto assenti: grazie all’Islam, venne sancito il diritto della donna di godere dell’eredità paterna e di avere una propria indipendenza economica.

Il Corano tutelò ancora la donna opponendosi alla pratica dei matrimoni precoci e combinati: il consenso della sposa divenne necessario per il conseguimento del matrimonio ma in pratica, ancora oggi, queste normative vengono aggirate; la religione islamica inoltre tollerò la poligamia solo perché era un retaggio culturale troppo radicato nella società araba. Nell’epoca in cui nacque l’Islam, la condizione  difficile delle donne sole o rimaste vedove, poteva essere risolta solo con il matrimonio poligamo, che dava la possibilità di accogliere un buon numero di donne in difficoltà.

Il velo, simbolo dell’inferiorità della donna, ha origini antichissime documentate sia nel Codice di Hammurabi che nella legge Assira e venne utilizzato per distinguere le donne rispettabili dalle schiave;  lo stesso Maometto si oppose a questa soluzione, poiché prevedeva le conseguenze negative che l’uso del velo avrebbe comportato.

Simone De Beauvoir, nella sua monumentale opera intitolata “Il Secondo Sesso” e dedicata alla condizione femminile, auspicò la fine delle disuguaglianze tra uomo e donna tramite il passaggio da una “differenza” non più fondata sulla subordinazione della donna ad una differenza armonica fondata su una distinzione di ruoli funzionali alla vita della società. Uomini e donne considerati come un insieme di individui liberi e di pari dignità e diritti. Una differenza che basterebbe alle donne saudite per non sentirsi più delle estranee nella propria terra.

di Gaia Bottino