Si fa presto a dire scienza

 

Intervista con Silvia Bencivelli, autrice con Francesco De Ceglia di Comunicare la scienza, un manuale teorico-pratico che cerca di spiegarci cosa è ‘scienza’ e come si fa a parlarne oggi. Il libro è l’occasione per un’indagine sull’affascinante ma delicato ruolo del comunicatore di scienza, una figura che ineluttabilmente sarà sempre più al centro del panorama culturale.

 

Dire scienza è cosa semplice, parlarne un po’ meno. Sembrerà un paradosso, ma in una società come la nostra, dominata dalla ragione scientifica e dalla tecnologia, di scienza se ne parla poco e male. Non è una cosa certamente da trascurare: parlare senza efficacia, o male, di scienza è un problema non solo perchè sarà causa di travisamenti, che in quanto tale deviano ed oscurano la verità che si vuole affermare, di fatto negandola, ma può essere anche fonte di ‘male morale’ da parte del pubblico se l’informazione data tocca corde sensibili nell’opinione degli ascoltatori. Necessariamente in un mondo così complesso, dove le ragioni sono così strettamente collegate tra loro, per cui l’evoluzione di una comporterà effetti sulle altre, sottovalutare il giusto ruolo della comunicazione scientifica e tutte le implicazioni che questa avrà direttamente nella nostra vita, non solo è un errore, ma è ‘un rischio’. Oggi la società deve ‘pretendere’ la più adeguata ed efficace comunicazione delle scienze e di esserne ‘illuminata’ senza ingerenze che di fatto ostacolano la verità che si vuole affermare, o quantomeno parte di essa. Una società guidata dalla ragione scientifica, un mondo così complesso, così rischioso, non può più permettersi un simile paradosso, non può acconsentire che per la maggioranza la scienza sia solo un prodotto, ma deve pretendere che la scienza si elevi ad essere ‘cosa pubblica’ ed argomento pubblico. Sempre più centrale sarà quindi nel panorama culturale il ruolo del comunicatore di scienze, al quale sarà affidato il difficile compito di spiegare cosa sia la scienza in sé e di accordarla con il resto delle ragioni, un compito che sarà sempre più impegnativo per la costante espansione dei suoi confini, e, dopo internet, per l’immediatezza con la quale avviene la comunicazione. A tal riguardo è stato da poco pubblicato per Carocci Editori un vero e proprio ‘manuale’ dal titolo ‘Comunicare la scienza, che cerca di chiarire cosa significhi oggi parlare di scienza, e sopratutto come ‘saperlo fare’. Il libro scritto da Silvia Bencivelli, medico e giornalista scientifica freelance , e Francesco Paolo De Ceglia, docente di storia della scienza presso l’Università di Bari, cerca di offrire a quanti lo desiderano tutti gli strumenti teorici e pratici per capire come si fa oggi a ‘saper parlare’ di scienza stando ‘in equilibrio’ tra la sempre più crescente domanda d’informazione del pubblico da una parte, e l’ermetismo delle istituzioni e degli scienziati dall’altra, non sempre, infatti, proprio inclini alla ‘parola’. Gentilmente la dott.ssa Silvia Bencivelli, autrice tra l’altro nel 2007 di Perchè ci piace la musica, ci offre una sua intervista per presentare il libro e parlare della condizione attuale della ricerca in Italia.

 

Come nasce l’idea di scrivere questo libro?

In italia mancava un manuale di comunicazione della scienza che fosse rivolto agli studenti con un’impronta abbastanza accademica da essere considerato libro di testo ma anche abbastanza pratica da essere davvero utile. Francesco De Ceglia ha curato la parte teorica, io quella in cui si spiega, di fatto, come si fa a scrivere di scienza o a fare scienza alla radio. L’idea è comunque di parlare anche ai ricercatori interessati e, perché no, di coinvolgerli in un dibattito su come si parla di scienza in Italia. perché purtroppo spesso gli scienziati si fermano a una constatazione tanto superficiale quanto ingiusta: “se ne parla male”, non è così, o almeno non è solo così: cominciamo a renderci conto che la comunicazione oggi vive in un libero mercato e che questo mercato soffre se vi sono chiusure che non permettono un dialogo sereno. E la cosa bella è che da quando è uscito, poco più di un mese, abbiamo avuto moltissimi riscontri positivi proprio da parte degli scienziati. chissà se un giorno non sarà da loro che verrà una spinta concreta ed efficace per migliorare la comunicazione della scienza in italia.

Qual’è la natura e il grado di preparazione del pubblico in Italia?

Non importa. è quello che è giusto che sia; è il grado di preparazione dei giornalisti che mi preoccupa. Un giornalista medio può non sapere moltiplicare per cinque e finire lo stesso in prima serata o in prima pagina, ed esistono giornalisti eccellenti che ritengono superfluo chiedersi che differenza esista tra due scienziati o come si faccia a capire che cosa è una causa e che cosa un effetto.
Questo è un problema! Mentre il “pubblico” di per sé non esiste: nel “pubblico” ci sono professori universitari di fisica, ferratissimi in fisica ma completamente disarmati di fronte alle scienze agrarie e all’economia. e ci sono pensionati con la terza media che non sanno niente di fisica, di scienze agrarie e di economia, ma che hanno la stessa dignità e lo stesso diritto a una buona informazione dei professori universitari di cui sopra.

 

Come è cambiato negli anni, nel panorama culturale, il ruolo del divulgatore scientifico, e perchè?

Io non sono un divulgatore scientifico: sono un comunicatore (anzi: una comunicatrice!). nel senso che divulgatore contiene in sé la parola volgo e l’idea che vada educato. E’ un approccio molto lontano da quello che proponiamo nel libro, in cui ci premuriamo di spiegare da subito che i processi di comunicazione sono di necessità biunivoci e devono fondarsi sul rispetto reciproco, anche perché altrimenti non funzionano. Comunque, in generale, quello che è cambiato è banalmente che internet ha fatto saltare le carte. Adesso su internet trovi tutto e il contrario di tutto e il problema dell’attendibilità si pone in tutti i sensi: come mi fido io del tizio che sto intervistando, come si fida il lettore di me, come ci fidiamo di quello che troviamo in rete, chi è più affidabile tra le tante cose che si trovano, e così via. Si pone anche il problema di come far sopravvivere il mercato, se si fa credere sempre di più che l’informazione sia impalpabile e quindi non ci sia bisogno di pagarla e si pongono problemi che da qui derivano, come quello dell’indipendenza del giornalista o, peggio, della sua sopravvivenza.

 

Parlare di scienza significa anche costruire un’Etica?

La scienza ha un’etica molto profonda e un metodo che la racchiude. La comunicazione della scienza ha un valore etico in una democrazia compiuta e matura, nel senso che permette il dialogo sulla cultura, sulla costruzione del futuro della nostra collettività e su un sacco di altre cose che interessano tutti: che cosa mangiamo, che energia usiamo, come ci vestiamo, come ci muoviamo, come ci telefoniamo, e cose delicate del tipo come ci curiamo, come moriamo, come educhiamo i nostri figli, come investiamo i nostri soldi...mentre per gli scienziati c’è una questione fondamentale che non va ignorata: chi lavora coi soldi pubblici deve poi spiegare al pubblico quello che ci fa. un po’ è un fatto etico (beh?) e un po’ anche questione di sopravvivenza: se la gente non sa quello che succede nei laboratori, come possiamo pretendere che continui a finanziarli?

Secondo lei, si parla adeguatamente dei rischi che la prassi scientifica comporta?

Se ne parla male, ed è un argomento delicato e pericoloso se esportato male dalla comunità scientifica al grande pubblico. Credo che non si possano usare per temi interni alla scienza, che riguardano la sua organizzazione e i suoi difetti, gli stessi canoni di semplificazione che si usano per i suoi risultati.

Perchè l’Italia soffre di un così grave ritardo nell’innovazione tecnologica e scientifica rispetto al resto del mondo?

Mi sembra un po’ ingiusto. In italia abbiamo grandi eccellenze scientifiche, pensate solo al nostro ruolo al Cern e nella scoperta del bosone di Higgs. E non è nemmeno vero che in altri paesi d’europa non ci siano fenomeni antiscientifici come quelli che vediamo qua. Possiamo però dire che negli ultimi decenni (decenni, intendo più o meno dagli anni sessanta – settanta) noi abbiamo rinunciato a certa ricerca, soprattutto quella che aveva importanti ricadute industriali (come nell’industria chimica, con la nostra gloriosa plastica di natta, o in quella farmacologica), poi abbiamo cominciato a considerare oziosa quella più di base, e in tempi di crisi abbiamo deciso che non avremmo investito in settori che altri paesi ritengono strategici, cioè la ricerca scientifica tutta. E’ stato un declino lento: la mia opinione è che sia un percorso suicida e che sarà difficile invertirlo a breve. Quanto alle ragioni, sono in difficoltà: credo che siano state adottate delle politiche. Io, se dovessi cominciare adesso, partirei dai bambini delle elementari, che purtroppo si preparano a ricevere un’istruzione scientifica più carente di quella che abbiamo avuto noi trent’anni fa. e credo che questo sia molto politico. Non starei a cercare differenze culturali, religiose, filosofiche remote.

Ha già in mente un nuovo lavoro?

Sto chiudendo un documentario sulla lingua dei segni italiana, che non è riconosciuta dalla legge, e un libro di neuroeconomia. e poi ho un sacco di altri progetti che mi aiutano a respirare.

 

http://www.silviabencivelli.it