Governi e partiti in difficoltà, la settimana scandinava

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Nei giorni della crisi in Ucraina, anche la Scandinavia tiene gli occhi puntati a est. Nel frattempo però la politica interna va avanti tra le difficoltà dell’esecutivo svedese, le incertezze del Partito del Progresso norvegese e l’Europa che allontana governo e cittadini islandesi.

In Svezia la proposta del governo di aumentare gli incentivi alla scuola e all’innovazione sembra non aver fatto grossa presa sull’elettorato, che continua a guardare a sinistra. L’attuale maggioranza metterebbe insieme il 37,8 per cento, se si votasse oggi. Le opposizioni di centrosinistra otterrebbero il 52: un divario di una quindicina di punti, roba che non si vedeva dal 2008.

In Norvegia invece acque agitate le sta incontrando il Partito del Progresso, forza conservatrice che fa parte del governo. Secondo un sondaggio pubblicato dal quotidiano Dagens Næringsliv, il partito è al 12,8 per cento: il peggior risultato dal 1997, lontano dal 16,3 ottenuto alle elezioni dello scorso settembre.

Erna Solberg (leader della Destra) e Siv Jensen (leader del Partito del Progresso)

Il problema non è dell’esecutivo in generale, visto che la Destra della premier Solberg guadagna un punto e mezzo (29,9): no, la crisi di consensi è tutta del Partito del Progresso. Segnali si erano visti nelle scorse settimane e già allora i motivi erano stati messi nero su bianco:  gli elettori faticano a rintracciare nelle politiche del governo il tocco del Partito del Progresso. Un rischio di cui gli esperti avevano già parlato nei mesi scorsi.

Considerate le premesse, le proposte per modificare le leggi sull’immigrazione potrebbero acuire il fastidio degli elettori. Il piano dell’esecutivo infatti sembra essere stato pensato per accontentare tutti e quattro i partiti di maggioranza: Destra, Partito del Progresso, Partito Liberale, Partito Popolare Cristiano. E alla fine dei conti il giro di vite che il Partito del Progresso voleva non c’è stato.

In Danimarca invece continua l’ascesa del Partito Popolare Danese, forza di destra, conservatrice, euroscettica: alle elezioni del 2011, il partito aveva preso il 12,3 per cento. Oggi è sul 21 per cento. Punta sulla sicurezza, parla chiaro, è considerato dalla gente un interlocutore sempre più affidabile.

Kristian Thulesen Dahl ha raccolto dalle mani di Pia Kjærsgaard un partito solido e lo ha fatto maturare, infilandosi prepotentemente in un quadro politico che vede l’universo di sinistra in enorme difficoltà. I laburisti che guidano il governo sono accreditati del 17,6 per cento dei consensi (alle elezioni del 2011 avevano preso il 24,8 e già quello era stato un fiasco). Peggio sta il Partito Popolare Socialista, fresco di una nuova leader, che dal settembre 2011 a oggi ha dimezzato i propri voti: dal 9,2 al 4,9.

Nel weekend, proprio il Partito Popolare Socialista si è riunito per celebrare il suo congresso. È diventata un’occasione per incrociare di nuovo i guantoni. Il quotidiano Politiken ha sottolineato che l’uscita dal governo decisa qualche settimana fa resta una ferita aperta: c’è chi continua a leggere quella decisione come un colpo di mano per disarcionare l’ormai ex leader Annette Vilhelmsen.

Il parlamento danese

Dietrologia politica? Forse. La dimostrazione di rapporti tesi? Sicuramente. Il Partito Popolare socialista resta un partito diviso, in completa ricostruzione, fuori dal governo ma comunque sostenitore dell’esecutivo. Da qui in avanti sono tante le domande sul proprio futuro a cui il Partito dovrà dare risposta.

Intanto in Islanda continua la protesta dopo la decisione del governo di centrodestra di chiudere i colloqui per l’adesione all’Unione europea senza passare per un referendum. Decine di migliaia di persone hanno firmato la petizione per chiedere quella consultazione popolare che secondo un sondaggio è voluto dall’81,6 per cento degli islandesi. Il popolo vuole potersi esprimere e lo ha fatto capire anche riempiendo per giorni la piazza di fronte al Parlamento.

La pressione sul governo è forte ma l’esecutivo gonfia il petto e tiene duro. Il ministro degli Esteri Gunnar Bragi Sveinsson ha fatto sapere che un referendum è “fuori questione”. Bjarni Benediktsson, leader del Partito dell’Indipendenza, ha definito “irrealistica” l’ipotesi di una consultazione popolare.

La conseguenza politica per adesso è che il governo perde consensi. Il Partito dell’Indipendenza e il Partito Progressista messi insieme otterrebbero ben poco: il 40,7 per cento, 12 seggi in meno rispetto agli attuali 38 e soprattutto addio maggioranza. Forse questo spingerà il governo a ripensarci.