Sulla definizione di Leadership. Seconda puntata: il PD


Questa è la seconda puntata dedicata al tema della leadership politica in Italia. Se avete letto anche la prima parte ricorderete forse che si parlava di una importante eccezione in tema di leadership tra i partiti italiani. Un grosso partito quindi con un problema cronico di mancanza di vera leadership.

Stiamo parlando naturalmente del PD, non c’è bisogno di grandi spiegazioni. Si tratta di una curiosa anomalia di massa.

Il PD è un caso unico nel panorama politico italiano, nel bene e nel male.
Il partito per eccellenza, qualcuno potrebbe dire che sia l’unico vero partito ma non sarebbe un giudizio generoso verso altri partiti veri, che ci sono malgrado il decadere nell’opinione pubblica dell’idea di partito, e di cui ci occuperemo successivamente.

L’unicità del PD sta nella sua cronica carenza di una leadership vera da molti anni.
Faremo una assunzione di base che a qualcuno farà storcere il naso ma che secondo noi potrà aiutare a comprendere alcune dinamiche.
L’assunzione di base è quella di voler studiare la forma partito e la leadership non del PD tout-court ma del principale partito del centrosinistra italiano durante gli ultimi 20 anni.
Stiamo parlando quindi della sequenza PDS-DS-PD. Mi rendo conto che non è del tutto corretto ed infatti anche per adattare meglio questo modello ai fatti sarà citata anche la leadership (che come vedremo era soprattutto elettorale) di Rutelli nel 2001. Questa sequenza serve a inquadrare l’andamento del mainstream del centrosinistra attraverso le sue anime di volta in volta preponderanti ipotizzando una evoluzione senza soluzione di continuità che ha mantenuto secondo noi una dorsale comune nell’arco di 20 anni.

Fatta questa doverosa premessa cercheremo di interpretarne le evoluzioni e ne analizzeremo il percorso a partire dal 1992.
Durante quegli anni infuriava “Mani Pulite” ed ogni giorno che passava era sempre più chiaro che il sistema dei partiti così come era stato conosciuto fino a quel momento non aveva futuro. Qualcosa di nuovo sarebbe dovuto venire di lì a poco ma nessuno aveva ancora ben chiaro cosa, sebbene molti avrebbero scommesso su una facile vittoria del blocco fino a quel momento all’opposizione, e meno toccato rispetto ad altri grandi partiti (se si fa eccezione del caso del “compagno G.” Primo Greganti che si prese tutta la colpa salvando il partito). Quel blocco aveva come perno principale il PDS di fatto erede del PCI.
Il segretario del PDS era Achille Occhetto, che si trovò alla fine del 1993, quello che in gergo calcistico sembrava fino a pochi mesi prima un “rigore a porta vuota”, alla testa di una “gioiosa macchina da guerra”. Occhetto spinse fortemente, dopo la vincente stagione dei sindaci, verso le elezioni anticipate pensando di avere in pugno una vittoria certa la primavera successiva.

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Era il segretario del partito e, benchè avesse una visione di futuro (ancorché confusa) che era rappresentata dall’uscita dal comunismo e dalla creazione di un nuovo soggetto politico pronto per il nuovo millennio, non seppe affatto convincere e coinvolgere fette consistenti di elettorato estraneo al vecchio blocco sociale sul quale si appoggiava il PCI.
Di fatto questa “traversata” culminata con l’ultimo congresso della Bolognina altri non era che un restyling di facciata, o almeno, a torto o a ragione come tale fu percepita dagli elettori.
Illusero molto, come dicevamo, i successi alle amministrative, ma solo una visione politicamente miope poteva non capire che l’ambito di quel successo restava limitato e non esportabile alle elezioni politiche a causa di una diffidenza della “maggioranza silenziosa” verso la vecchia classe dirigente del PCI rea di aver fatto per troppo tempo “la scelta sbagliata” e il crollo del modello sovietico era una pistola fumante troppo grossa per essere ignorata. Come potevano guidare il paese se si erano sbagliati per decenni in maniera così plateale? Al di là della politica che avrebbero portato erano visti comunque come vecchi arnesi inadatti al ruolo.
Oltretutto sarebbe bastato guardare ai risultati elettorali del primo turno di quelle elezioni trionfali per la sinistra, e considerare che le elezioni politiche si sarebbero svolte in un turno solo, per capire che questa vittoria data per certa tanto certa non era, e questo errore marchiano dà anche la misura dell’inadeguatezza di quel gruppo dirigente.
Il risveglio con la pesante sconfitta del 27 marzo 1994 alle politiche, e la ancora più pesante sconfitta delle elezioni europee pochi mesi dopo, fu drammatico per il partito (allora PDS).

Occhetto fu costretto alle dimissioni da segretario e si scatenò per la prima volta la lotta per la leadership tra D’Alema e Veltroni, dove la spuntò il primo grazie ai voti del Consiglio Nazionale, benché il secondo apparisse in vantaggio nei sondaggi nelle sezioni del partito.

Per tornare, dopo questo escursus storico, al concetto di leadership, che è il tema di questa serie di puntate, Occhetto non era stato affatto un vero leader, non aveva il controllo del partito (memorabile una vignetta di Disegni che mostrava come D’Alema avesse venduto a sua insaputa Botteghe Oscure), aveva una idea confusa di dove dirigerlo e non aveva alcun appeal comunicativo o mediatico. Di tutta quella operazione da lui orchestrata alla Bolognina non restò che una scissione tra PDS e Rifondazione, e un banale cambio di nome senza vere novità in termini di contenuti (o almeno ben pochi elettori le percepirono come tali).

A Occhetto dicevamo successe D’Alema.

D’Alema dopo aver fregato Veltroni (come accennato in precedenza) organizzò la candidatura di Prodi, con una plateale investitura nel 1995, e l’alleanza con i Popolari, ma prima ancora era riuscito a tirare dalla sua la Lega definendola con una frase passata alla storia “costola della sinistra”. Facendo leva sulla loro paura derivata dal fatto che Berlusconi stesse cercando di vampirizzarne l’elettorato attraverso l’uso delle TV (la Lega resistette eccome a causa del carisma e della leadership di Bossi di cui abbiamo parlato nella scorsa puntata) D’Alema offrì alla Lega una sponda per detronizzare il Cavaliere e sostenere un Governo Tecnico.
Di concerto quindi anche coi Popolari sostennero insieme il governo Dini gettando le basi per il Governo Prodi, mentre la Lega se ne sarebbe stata felicemente all’opposizione con un bel carico di voti.

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In soli 2 anni dal titolone “Buonanotte” del Manifesto (sempre memorabile nelle sue prime pagine) all’indomani delle elezioni europee del 1994, si passò ad una morte politica apparente di Berlusconi, morte che non si concretizzò anche grazie a una certa spregiudicatezza dello stesso D’Alema che aveva altre ambizioni oltre al fare il king maker di Prodi: voleva essere il primo Premier post-comunista italiano.
Tutto il suo piano riuscì. La sua visione, sia tattica che strategica, era anni luce superiore a quella di Occhetto. Il controllo del partito da parte sua era pressocché totale.
In poche parole, senza alcun dubbio dal 1994 al 2000 il centrosinistra ebbe un vero leader, ma la sua leadership mancava di un elemento fondamentale: non era un leader nazionale ma di partito/coalizione (Prodi invece nel momento dell’ingresso nell’Euro fu percepito come tale un po’ da tutti gli italiani, i sondaggi dell’epoca erano chiari).
D’Alema era percepito come troppo di parte, come una specie di “usurpatore” del ruolo che spettava a Prodi, ma soprattutto aveva voluto una occasione per non essere più “figlio di un dio minore” (parole sue che citavano un bellissimo film dell’epoca), però nei suoi 2 anni di governo, a parte la privatizzazione della Telecom (che col senno di poi non è stata un grande affare per la Telecom e nemmeno per l’Italia) non si ricordano grandi innovazioni, se non una buona gestione della crescita susseguente al buon lavoro fatto in precedenza da Prodi e Ciampi.

Veltroni fu messo alla guida del partito, ma un partito di cui D’Alema era ancora profondamente leader.
In quella stagione ci fu una serie di sconfitte tra le quali la più bruciante fu quella storica di Bologna del 1999. Un colpo al cuore per la sinistra italiana.
Non si pensò ad un deficit di gestione da parte di Veltroni, anche perché era troppo evidente che il vero leader restava sempre D’Alema.

Nonostante la successiva sconfitta alle regionali del 2000 e la sostanziale uscita dal primo piano, D’Alema è poi rimasto molto influente anche negli anni a seguire.
I maligni dicono a causa dei soldi delle fondazioni, ma non è certo per quelli se ancora oggi tra i giovani democratici ci sono un sacco di “seguaci” di D’Alema chiamati perfidamente (da quelli delle altre correnti) i “dalebani” o i “dalemasessuali”, e questo non 10 anni fa ma adesso nel 2012.
Segno che una direzione D’Alema l’ha impressa, una direzione che si è persa nel momento in cui ha voluto dare sfogo all’ambizione di diventare il primo premier ex-PCI italiano.

E’ meglio un uovo oggi o una gallina domani? Col senno di poi diremmo che quell’uovo era meglio farlo crescere e lasciare Prodi dove era (non prendiamoci in giro dando la colpa a Bertinotti: una manovra di quel genere richiedeva enorme intelligenza politica e non è certo il caso di Bertinotti, che nella circostanza si fece usare irretito da falsi sondaggi che lo davano al 15% in caso di rottura con Prodi, partiva dall’ 8,6% del 1996 e, invece di prendere il 15% che sperava, prese il 4,3% alle europee del 1999; la cosa più incredibile è che poi sia rimasto segretario di RC anche dopo il dimezzamento dei voti in soli 3 anni).

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Con le elezioni del 2001 il candidato premier fu Rutelli. Come abbiamo già analizzato nella puntata precedente quest’ultimo non ha in alcun modo i requisiti del vero leader, quindi consideriamola una parentesi (ricordo una feroce battuta credo di Maria Novella Oppo su L’Unità che ironizzava sulla sua incapacità di essere leader, qualcosa tipo “Rutelli ha detto che non si muove da dove è, costringendo il centrosinistra a non avere un leader ancora a lungo…”).

Tramontata la breve parabola rutelliana, a prendere le redini della coalizione di fatto fu Piero Fassino, dato che Veltroni era diventato sindaco di Roma, con la cui segreteria del principale partito (che dal 1998 si chiamava DS) coincise la più incredibile stagione di vittorie del centrosinistra. Una sequenza mai ripetuta di successi a tutti i livelli.

Senza carisma, senza grandi mete, un ottimo amministratore Fassino non può essere additato come esempio di leader ma certo ha molti più meriti e molte più caratteristiche positive (come i suoi stessi concittadini torinesi gli stanno tributando) di quanto si pensi. Gli mancava qualcosa per essere davvero leader e per capire quanto non avesse davvero una presa completa su quello che succedeva nel partito basti ricordare la famigerata telefonata dell’ “abbiamo una banca”. Chi l’ha ascoltata con attenzione ha capito perfettamente (persino i suoi peggiori detrattori) che Fassino era assolutamente innocente. Era chiaro come il sole che non ci aveva capito nulla, chiedeva di cifre a caso e con una notevole confusione per poi sparare quella frase, ritrattata due secondi dopo, dando evidenza di non aver capito cosa stesse succedendo. Quella scena fa capire più di ogni altra cosa che Fassino non era un vero leader così come non lo era stato Rutelli (solo un po’ più sfortunato elettoralmente del suo collega torinese). D’Alema invece aveva capito tutto benissimo. Come sempre.

Arriviamo finalmente a Veltroni che, dopo 13 anni dal primo tentativo e dopo 6 anni da sindaco della capitale, ha finalmente un mandato pieno da segretario del primo partito della coalizione del centrosinistra. Un mandato che più pieno non si può.
Grandi illusioni che si infrangono pesantemente in una carenza di controllo e di organizzazione delle strutture territoriali del partito, una incapacità totale nello scegliere le persone nei posti chiave e di cambiarle se necessario (l’archetipo di questo tipo di leadership fu espressa da Abramo Lincoln durante la guerra civile americana, quando si accorse che stava perdendo contro le truppe del generale Lee, cambiò tutta la catena di comando fino a quando non trovò Ulisses Grant che fu capace di invertire le sorti di quella guerra) e una mission che appariva confusa col solo scopo chiaro di non voler pestare i piedi a nessuno.

Un messaggio del genere inizialmente può suscitare interesse e ascolto ma poi se non si carica di significati risulta talmente vuoto da diventare un boomerang.

Anche l’uso delle parole non fu dei migliori. Per fare un esempio Veltroni ripetè ossessivamente la parola riformista come se quella da sola fosse un programma, una meta, un ideale.

Peccato che di per sé sia una parola vuota per chiunque.
Che vuol dire “riformista”? Uno che vuole fare le riforme, ok ma quali?
Riforme che tuteleranno il bianco ma anche il nero, il dolce ma anche il salato, il pubblico ma anche il privato.
Sì ok ma in concreto? Boh…
Un deficit comunicativo alla lunga gravissimo da parte di qualcuno che era stato visto invece come il miglior comunicatore del centrosinistra, e qui c’è un grande equivoco perché molti confondono la capacità di comunicare con la “mediaticità” di un personaggio. Sono due cose diverse che inseriremo alla fine di questo tema in una tabella collegandola ad ognuno dei leader di cui si è parlato.

Grande mediaticità quindi ma comunicazione vuota. Alla fine questa strategia ebbe il risultato di non creare alcuna antipatia verso di lui da parte dell’elettorato ma nemmeno un vero entusiasmo, se non tra quelli già convinti da un pezzo, o una espansione della base elettorale.
Era un messaggio vuoto di contenuti molto più di quanto le iniziali premesse lasciassero intendere e quindi foriero di delusioni ancora più brucianti da parte del popolo della sinistra.

Allora secondo la nostra indagine fu Veltroni un vero leader? No decisamente, visto quanto detto sulla sua visione e sulla “mission”. Non fu nemmeno un buon gestore della ordinaria amministrazione (come invece Fassino era stato), e il caso Sardegna (che fu tra le cose a portarlo alle dimissioni da segretario) fu l’emblema della sua incapacità di controllare e gestire il partito.
Tante premesse e poca sostanza, troppo poca.

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Dopo un breve interregno da parte di Franceschini (divenuto segretario dopo le dimissioni di Veltroni in quanto suo vice), il quale, è inutile dirlo, non aveva affatto le caratteristiche del vero leader (nemmeno uno straordinario gestore o comunicatore, non ha lasciato particolarmente il segno), si passa attraverso le primarie all’investitura di Bersani.
Un pragmatico che ricorda un po’ Fassino e infatti il PD pur non risalendo nei consensi (scende tra il 26 e il 27% dai massimi del “voto utile” del 33%), fermando in qualche modo l’emorragia, diventa primo partito.

E’ vera leadership? Non proprio… Bersani sembra non sapere dove dirigere il partito, se verso i moderati o verso un’alleanza stile “Progressisti del 94” con SEL e IDV. Un gestore forse meno capace di Fassino ma comunque uno che si è difeso, ed un comunicatore non raffinatissimo (con le sue metafore un po’ parossistiche e la carenza di carisma) ma tutto sommato efficace per la propria base elettorale, che, come abbiamo visto in altri studi, è composta da un segmento di popolazione per il quale le metafore hanno una loro presa. Certo inadatte a espandere la base elettorale, ma qui sembrano giocare tutti in difesa.
Sono anni che un po’ tutta l’Italia gioca in difesa anche quando le sta prendendo, la cosa quindi non stupisce più di tanto.

Resta il fatto che quella di Bersani non è una leadership vera ma al massimo una reggenza temporanea in attesa di qualcosa di diverso capace di attrarre e convincere fette di elettorato finora mai coinvolte o di convincere tanta gente che si è rifugiata nell’astensione a tornare al voto.

Ma allora chi detta la linea adesso nel PD?
Nessuno…
se proprio vogliamo dire chi ha la “golden share” sembra che ce l’abbia il sindacato.
Il che non è il massimo per un partito, pur sempre scalabile pur sempre contendibile a differenza dei partiti-azienda o dei partiti-partita IVA o dei franchising di cui parleremo nelle prossime puntate.

Quindi un definitiva il PD sembra quasi una massa enorme ed informe senza una chiara direzione che attende un vero leader, come non ha saputo esserlo Veltroni, come non ha saputo esserlo Franceschini, come non sa esserlo nemmeno Bersani e come non dovrebbe esserlo il sindacato.