Il Pd: una continuazione (ben riuscita) del Pci?

È diventata “communis opinio” tra i commentatori politici, sul web, tra gli avversari, tra gli stessi militanti, che il Pd abbia ottenuto un risultato molto deludente alle elezioni Regionali.

O meglio, che più complessivamente il Pd sia un partito le cui dimensioni elettorali sono largamente al di sotto di quanto auspicabile, e perfino di quanto prevedibile. Si sprecano le analisi, e i sarcasmi, sulla prossima “estinzione” del Partito democratico, sulla “casa che si svuota”, sulla “sostanziale scomparsa al Nord”, sulla ormai “faticosa resistenza al Centro”, contrapposti al dinamismo non solo della Lega Nord, ma anche all’intatta popolarità di Berlusconi e alla forza attrattiva di concorrenti come Grillo e Vendola che, di fatto, cercano di affermarsi politicamente proprio dando per scontate l’inevitabile “regressione” e “declino” del Pd.

 

Peraltro, questa analisi è rafforzata da un eterno dibattito interno e da un congresso mai finito, per cui le minoranze, quali che esse siano, sono le prime, e spesso le più feroci, a mettere in luce le inadeguatezze elettorali, i risultati mancati, gli obiettivi irrealizzati e così via.

 

Senza entrare nel merito politico, proveremo a fare con il Pd quello che facemmo tempo fa con l’intero centrosinistra: un’analisi storica ad ampio raggio che raffronti i suoi risultati con un’entità politicamente paragonabile, vale a dire il Pci.

Anticipo qui l’obiezione metodologica che alcuni hanno posto quando paragonavo il “centrosinistra” degli anni ’70 e degli anni Duemila: che si tratta di paragoni sostanzialmente impossibili, viste le enormi differenze politiche maturate nel corso dei decenni. E le differenze tra Pci e Pd, inutile negarlo, sono enormi: il primo è nato come costola della Terza internazionale, è stato per decenni finanziato dall’Urss e ha posto la rivoluzione comunista come base ideologica del proprio agire. Il Pd è un partito di centrosinistra moderato, di cui è parte integrante anche un settore importante dell’elettorato e dell’associazionismo cattolico, e che per questo fatica persino a paragonarsi ai confratelli europei del socialismo democratico.

Ma se invece che alle ideologie (inevitabilmente diverse in contesti storici totalmente diversi) si guarda alla “funzione”, le analogie sono enormi. Il Pci, nella sua storia, è sempre stato un partito di massa, schierato a sinistra, con l’ambizione di rappresentare l’opposizione al potere di centrodestra, e di costruire un’alternativa che si manifestava, per lo più, nelle amministrazioni locali. Lo stesso ruolo ricoperto oggi dal Pd, che si propone come forza di massa e aggregatrice del centrosinistra. Come vedremo, anche elettoralmente le analogie  e le somiglianze sono tali e tante, da rendere il paragone perfettamente plausibile.

Iniziamo con i dati a livello nazionale. Il Pd, per ora, ha affrontato tre prove nazionali. Alle politiche del 2008 ha preso il 33,2% (insieme ai Radicali), e alle Europee del 2009 il 26,1%. Alle Regionali del 2010 ha ottenuto un altro 26,1 per cento che, secondo tutti gli analisti, va corretto al rialzo con i voti alle liste civiche del centrosinistra: quindi diciamo che ha conquistato una percentuale compresa tra il 27 e il 28% (quest’ultimo è il dato di cui lo accredita Termometro politico). Tendenzialmente, il risultato delle Politiche deve essere considerato come una sorta di “soglia di resistenza verso l’alto”  (per usare i termini degli analisti di borsa), e quello delle Europee invece, piuttosto vicino ai minimi, una “soglia di resistenza verso il basso”.

Ebbene, questo stupirà forse i nostalgici del Pci, ma molto di rado il Partito comunista ha ottenuto risultati altrettanto buoni rispetto a quelli del Pd. Lasciando da parte il 1948 (dove era in lista unica con i Socialisti), il Pci è partito dal 22,6% del 1953, per avere un primo balzo nel 1963 (25,3%). Nel 1972 ottenne il 27,1% dei voti. La “grande avanzata” del Pci, come si ricorderà, è quella del 1976, dove raggiunse il 34,3%, ma tre anni dopo scese al 30,4%. L’ultima prestazione elettorale (1987) del Pci è quasi identica all’ultima del Pd, e molto simile a quella del 1972: 26,6%. (I dati considerati sono quelli della Camera, ndr).

Insomma le “soglie” verso l’alto e il basso del del Pci sono molto simili a quelle finora registrate dal Pd, con analogie davvero sorprendenti.

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Eppure una differenza c’è, ed è notevole. Mentre il Pci alla sua sinistra ha avuto sempre forze residuali (almeno dal punto di vista elettorale), quasi mai superiori al 2 per cento, il Pd invece deve confrontarsi, alla sua sinistra, con liste che ammontano a circa il 6%. Senza voler inserire nel conto la lista Di Pietro, che pure di fatto fa concorrenza elettorale “da sinistra”, e che vale tra il 7 e l’8%, e Grillo, che ha dimostrato alle ultime Regionali di pescare soprattutto a sinistra (come dimostra il caso dell’Emilia-Romagna).

Proviamo ora a fare un analisi in ambito locale. Come termine di paragone useremo le Regionali del 1990, ultima prova elettorale del Pci unito – seppur già dilaniato da un durissimo dibattito congressuale, e dalla scissione ormai vicina. Condizioni obiettivamente sfavorevoli, ma certo non molto più difficili di quelle che hanno contrassegnato l’ultima campagna elettorale del Pd. Facciamo il confronto Regione per Regione. Al Pd aggiungeremo i 2/3 delle percentuali ottenute dalle liste dei candidati presidenti, in considerazione del fatto che il Pd ha rappresentato circa i 2/3 (ma spesso di più) delle coalizioni che sostenevano i diversi presidenti.

Piemonte: 22,8% (Pci) – 25,4% (Pd)

Lombardia: 18,8% (Pci)- 22,9% (Pd)

Veneto: 15,6 % (Pci) – 20,3% (Pd)

Liguria: 28,4% (Pci) – 30,8 % (Pd)

Emilia: 42,1% (Pci) – 40,6% (Pd)

Toscana: 39,8 % (Pci) – 42,2 (Pd)

Marche: 30 %(Pci) – 31,1% (Pd)

Umbria: 38,3% (Pci) – 36,2 (Pd)

Lazio: 23,8% (Pci) – 27,4% (Pd)

Campania: 16,7% (Pci) – 21,4% (Pd)

Puglia: 18,7% (Pci) – 24,4% (Pd)

Basilicata: 19,2% (Pci) – 27,1 %(Pd)

Calabria: 19,4% (Pci) – 20,4 % (Pd)

Come si vede, i risultati del Pd 2010 sono stati generalmente migliori di quelli del Pci 1990, tranne che in pochi casi (Emilia, Umbria). Il miglioramento è particolarmente evidente nelle regioni “non rosse”.

Analizzati i dati, cosa possiamo concludere?

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1) Se l’idea che ha portato alla nascita del Pd era quella di ricreare una nuova, grande forza che facesse da perno e “faro” del centrosinistra, la scommessa è stata sostanzialmente vinta. Il Pd certo non riesce a fare il pieno delle sue potenzialità, ma pure in annate difficili, come le ultime due, si conferma forza paragonabile, per estensione e diffusione, a quella del Pci;

2) Il Pd è effettivamente riuscito ad aggregare una parte consistente dell’elettorato moderato. Lo dimostra il fatto che ha percentuali simili al Pci pur avendo molti più concorrenti alla sua sinistra.

3) Il Pd, rispetto al Pci, appare più forte nelle zone da sempre meno favorevoli (Lombardia, Veneto, ma anche Lazio e Puglia). Almeno dal punto di vista elettorale, il radicamento del Pd al Nord è superiore a quello del leggendario “Pci dei militanti”. Di conseguenza Il Pd è meglio “spalmato” a livello locale, e quindi ha caratteristiche più simili a quelle di un grande partito nazionale, e che di una forza “appenninica”, come sostiene malevolmente Tremonti.

4) L’amalgama tra ex comunisti e cattolici quindi, al contrario di quel che diceva D’Alema, appare ben tutto sommato riuscito, e non particolarmente problematico (almeno a livello puramente elettorale).

5) La concorrenza a sinistra non è affatto un dato negativo, anzi è potenzialmente una forza, se si vuole tentare di governare un Paese con una coalizione. Certo, per ora i numeri non sono sufficienti, ma nulla esclude che un giorno potranno esserlo. Forse il vero problema è il frazionamento dei gruppi a sinistra del Pd, divisi tra loro e troppo piccoli per creare consenso in modo autonomo.

Tutto bene quindi? No, certo. I problemi del Pd restano tutti, e li conosciamo bene. Però non sono problemi di “esistenza” o “radicamento”, o almeno non più di quanti ne abbia avuto il Pci nella sua storia. I dirigenti del partito, invece di contorcersi in polemiche bizantine sulle forme organizzative, sognare nuove “ripartenze” del progetto Pd, o far balenare dannose scissioni, farebbero meglio a valorizzare, anche con l’opinione pubblica e con i propri stessi simpatizzanti, i discreti risultati raggiunti dal Pd nei primi tre anni di vita. L’attuale forza elettorale e insediamento sociale non è sufficiente per vincere, ma è un eccellente punto di partenza, una forte leva per diffondere le proprie proposte nella società e accrescere i consensi. Lo strumento, il partito, come si è visto, esiste. Forse sono i progetti e le proposte che mancano, ma questo è un discorso diverso…