La Serbia da Đinđić a Dačić: la necessità di riscattarsi dalla propria ‘casta’

Di fronte agli esiti elettorali serbi, piuttosto scontati, mi riesce difficile comprendere il pacato ottimismo che vige tra gran parte degli osservatori occidentali: ai loro occhi, pare di capire, ogni giorno rubato ai conflitti armati è un nuovo inno elevato alla democrazia.

Confronto degli esiti parlamentari alle elezioni del 2008 e 2012 in Serbia (elaborazione dati EaST Journal)

 

Ora, se è così, le strade sono solo due: o la Serbia è finalmente diventata un “noioso” paese occidentale come tanti altri, ma quindi è alquanto superfluo soffermarsi a festeggiare il mero esito democratico delle sue tornate elettorali, oppure dobbiamo ammettere che qualche spiccata peculiarità la porta, se non altro per un criminale, sanguinoso, recentissimo passato. È solo in questa seconda ottica che riesco a capire l’illuministico ottimismo di chi brinda ad ogni elezione svoltasi regolarmente, ad ogni dichiarazione di qualche politicante serbo che abbia imparato a masticare sorridendo la parola “Europa”. Eppure, proprio in questa chiave, risulta incomprensibile come gli stessi siano altrettanto svelti nell’assolvere la palese rimonta dei protagonisti in prima persona del palcoscenico politico del regime di Milošević.

Non starò a sottolineare troppo la cocente sconfitta dei democratici (-11% rispetto alla coalizione DS-G17-SPO del 2008), i liberaldemocratici al palo (attenzione, gli ex-elettori di Jovanović sono usciti a votare, eccome: schede nulle!), lo stellare balzo (dal 7,6% al 14,7%) del fu partito di Milošević, né il fatto che le Dveri fasciste alla loro prima comparsa nell’arena politica sfiorano lo sbarramento (4,3%), destinati facilmente a riempire nel 2016 il vuoto parlamentare lasciato dai radicali (dalla padella alla brace).

I radicali di Šešelj non sono rimasti fuori dalle istituzioni perché il loro programma politico è ritenuto inattuale dall’elettorato, quanto semplicemente perché lo sono stati i modi di porsi e comunicare. È pacifico che non ci si possa aspettare nemmeno dall’elettore provinciale serbo, in assenza di embarghi internazionali e della televisione di stato di Milošević, che voti in massa chi ripropone non tanto le medesime strutture, ma anche lo stesso linguaggio di un tempo. Nondimeno, l’elettore serbo dimostra ancora una volta di essere intrinsecamente reazionario e impreparato ad affrontare qualsiasi apertura verso l’esterno. Questa è una situazione che scaturisce da due forze opposte ma unidirezionate, l’una bassa, che è appunto la qualità dell’elettorato, diffidente rispetto alla transizione democratica, vista non come soluzione ma bensì causa dei mali del paese, l’altra alta, data dalla natura rigida dei partiti, inadatti a riformarsi al proprio interno, e che porta a rivedere le stesse facce di un passato che andrebbe ripudiato. In mezzo sta la Serbia, che ne perisce. Finché i vari Dačić, Koštunica, Nikolić non verranno fisicamente rimossi dalle posizioni d’influenza da cui operano, per la Serbia non c’è e non ci sarà mai la minima speranza di miglioramento, checché ne dicano gli analisti europei.

Boris Tadić, pilota campione di manovre in retromarcia (foto Betapress/Nenad Petrović)

La posta in gioco, se già non è troppo tardi, è molto alta, e infinitamente più sottile di un “ritorno a Milošević”: se la Serbia non saprà percorrere motu proprio la strada verso il rinnovamento, marcirà. Non si tratta di tornare a guerre, e non si tratta nemmeno di fallire l’ingresso nell’Unione europea (il quale, vada come vada, non avverrà prima di altri dieci anni). Primo, perché la Serbia non è più nella condizione interna ed esterna di nuocere a nessuno (se non ai suoi cittadini), secondo, perché sarà comunque l’UE a voler inglobare, presto o tardi, tutti i Balcani: come ha dichiarato il Presidente del Consiglio europeo Van Rompuy, l’ingresso nell’Unione è l’unico modo per i paesi dell’ex-Jugoslavia di porre fine permanente ai conflitti armati, obiettivo al quale l’UE non può ovviamente dirsi poco interessata. Il vero pericolo, già parzialmente avveratosi, è che la Serbia diventi una ridicola, anonima repubblica delle banane, senza futuro e senza dignità, perché mai riscattatasi dal proprio passato.

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Per chi c’era, per i suoi protagonisti positivi, il 5 ottobre 2000 non ha segnato solo la destituzione di un satrapo, ma una grande epifania morale, il frutto dolce della disperazione, del sangue e delle lacrime di chi per un decennio aveva lottato e fallito, di chi fino al dolore fisico aveva caparbiamente sognato di costruire un paese giusto, una società equa, un futuro di libertà di cui essere fieri, in patria ed all’estero. Per un breve lasso di tempo, quel sogno ha avuto anche un volto, quello di Zoran Đinđić, ed è solo per merito suo se i politici odierni, si chiamino essi Tadić o Dačić, si possono concedere quasi tutto, ma non di liquidare la promessa – nei fatti poco sostanziosa – dell’Europa. È stata proprio la Serbia passata, fantasma degli anni ’90 tramutatosi in pop-democrazia, a far pagare a Đinđić tanto caro il suo apporto alla causa. E tanto basta a rendere intollerabile l’idea che Ivica Dačić si possa permettere oggi di aspirare alla poltrona che fu di Đinđić.

Per tutto ciò, al momento non mi posso concedere di guardare il bicchiere mezzo pieno. Per questo non mi può bastare che la Serbia sia pacifica, o formalmente democratica. Si tratta di traguardi necessari, ma non sufficienti. Possono bastare per chi non è serbo, ma per chi in quel paese è nato, è una cocente, umiliante sconfitta sapere che fino ad oggi gli scarsi, restii progressi compiuti dalla Serbia, non sono altro che merito esterno dello stretto morso col quale l’occidente ha saputo imbrigliare il paese. E che i nomi che hanno corso e vinto le elezioni del 2012, non hanno, non hanno avuto e non avranno mai la caratura umana e politica per mostrare cosa la Serbia possa davvero fare, ed essere.

Da EastJournal

di Filip Stefanović