Sulla definizione di Leadership. Terza puntata: il PDL

Eccoci finalmente alla terza puntata della nostra analisi della leadership politica italiana degli ultimi anni. In questa puntata si parla del centrodestra italiano durante gli ultimi 18 anni.
Un centrodestra che sembra ormai avviato ad un inesorabile declino, almeno nel formato che abbiamo conosciuto durante il periodo comunemente definito come “seconda repubblica“.
Inutile dire che la figura cardine di questo perido storico è stata senza dubbio quella di Berlusconi.
Non ha caratterizzato solo una parte politica ma forse più ancora un cambiamento dei costumi di una intera società, di una intera nazione, prima ancora che scendesse in campo (grazie alle sue TV) e più ancora che politicamente e culturalmente si potrebbe dire persino antropologicamente.
Berlusconi in realtà non ha inventato nulla, ha solo dato spazio e legittimità a quello che ribolliva da tempo ma che non aveva ancora trovato una guida per risalire a “riveder le stelle”.


In una delle nostre analisi precedenti in effetti si è visto come, in realtà, la classe politica attuale non sia affatto inferiore alla base elettorale che la sottende (e questo vale per tutta la classe politica da destra a sinistra, fare del manicheismo qui è assolutamente fuori luogo). Uno dei rischi della democrazia (discussi fin dall’alba dei tempi già dai filosofi greci) è quello che i politici, per conquistare e mantenere il potere, finiscano col blandire, vezzeggiare e coccolare l’elettorato ottenendo a breve termine un grande consenso ma portando poi, a lungo termine, l’intera comunità su un binario morto. Qualcuno potrà storcere il naso ma una delle principali ragioni per le quali i politici mentono è perché sono proprio molti di noi a esigere (inconsciamente o consciamente, direttamente o indirettamente) che lo facciano.
Perché se ci dicessero la verità probabilmente molti di noi non li voterebbero e sceglierebbero una promessa di ricchezza e vita facile anche se palesemente fasulla. E questo loro lo sanno bene, altrimenti non sarebbero dove sono. Si chiama “demagogia” e se non funzionasse elettoralmente nessun demagogo sarebbe mai stato eletto, mentre sappiamo bene che non è così.

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Quell’afflato assolutorio verso gli elettori come se le colpe fossero tutte dei politici (ovviamente avversari) è tipico di coloro che vogliono approfittarsi della creduloneria delle masse.
Se ci sono persone che protestano perché non gli si permette più di abusare di un qualcosa di illecito (come avevano sempre fatto chiamando addirittura a volte l’abuso “diritto acquisito”), c’è sempre un politico che corre a mischiarsi con loro dicendo di condividere le loro battaglie. Qualunque esse siano, giuste o sbagliate nel merito, ci sarà sempre qualcuno che cercherà una rendita di posizione, cavalcando una protesta non appena essa si manifesta.
Questo avviene sia a destra che a sinistra. Per tutti, ma proprio tutti, i partiti e movimenti è possibile trovare un esempio in tal senso. Ovviamente ognuno individuerà gli opportunisti dell’altro schieramento ma difficilmente riuscirà a vedere quelli del proprio.
Chiarito quale sia la figura preminente (ma parleremo anche di altri), andiamo ad analizzarne il coefficiente di leadership.
Aveva o no Berlusconi il controllo del proprio partito? Pure troppo.
Era in grado di dare tutte le risposte relative al proprio programma? Eccome…
Inutile dire se avesse un impatto mediatico o meno, perché è fin troppo evidente.
Aveva una idea di futuro dove guidare l’Italia? Qui non è molto chiaro.
Ovvero ha scritto pure un libro “l’Italia che ho in mente” e bene o male la direzione da prendere, almeno all’inizio, era quella della “rivoluzione liberale” ossia di fare dell’Italia un paese con meno burocrazia e con tanti imprenditori, soprattutto individui “imprenditori di sé stessi”.
La visione non era sua ma chiaramente mutuata dal “sogno americano” ed ha fatto grande presa all’inizio della sua discesa in campo.
Col passare del tempo questa ambizione non ha mai trovato sbocchi, per vari motivi che esulano dallo scopo di questa analisi.
Trattandosi di un pragmatico e non di un uomo di stato, egli si è accontentato di gestire la sua popolarità e il proprio consenso trasformando il dibattito in una scelta di campo.
Nel paese dei Guelfi e dei Ghibellini (sempre pronti a reinventarsi Guelfi Neri e Guelfi Bianchi) questo non poteva che fare presa.
Gli italiani sono, in buona parte, per propria natura campanilistici, faziosi e fondamentalmente tifosi. Vanno a simpatie e antipatie e agiscono per partito preso come pochi popoli al mondo. Non accettano verbalmente l’idea di aver perso, lo sanno, si comportano di conseguenza, anzi dicono di essere stati sempre a favore di quella cosa che avevano avversato fino a un attimo prima.
E’ una cosa che alcune aziende soprattutto americane, che interagiscono e lavorano anche in Italia, dicono ai loro manager mettendoli in guarda sul come comportarsi con gli italiani in determinate circostanze.
Diceva Churchill (ben prima di Berlusconi) che gli italiani vanno alla guerra come a una partita di calcio e alla partita di calcio come alla guerra.
Siamo tifosi e molto spesso per niente obiettivi.
Berlusconi gli italiani li conosceva e li capiva bene, meglio di chiunque altro.
Avendo ben presto capito che era una causa persa il pensare di ammodernare il paese (perché è evidente che avrebbe voluto ottenere questo risultato, non fosse altro che per vanagloria personale, sarebbe stata una cosa di cui se ne sarebbe vantato fino all’inverosimile), come molti commentatori e analisti politici (di un po’ tutti i colori politici) hanno spiegato, ha pensato bene di usare il potere raggiunto per farsi i “santissimi fatti suoi” (cosa che avrebbe fatto una gran parte degli italiani se fosse stata al suo posto).
Quindi se l’obiettivo della rivoluzione liberale era un obiettivo nobile, il vero obiettivo era, a detta di quasi tutti gli analisti politici a questo punto, l’interesse personale.
Anni di leggi ad personam e aiuti alle proprie aziende con il parlamento “sequestrato” per mesi non potevano passare del tutto inosservati.
A tutto danno di chi la rivoluzione liberale la sognava davvero (e che per questo è ora ancora più infuriato con lui).
Era quindi un vero leader? Decisamente, senza ombra di dubbio.
Un leader egoista ed egocentrico ma anche piuttosto chiaro nei suoi programmi e nel suo modo di fare.
D’altronde, come hanno fatto notare molti arguti commentatori (tra i quali i Guzzanti), lui diceva esattamente quello che avrebbe fatto in maniera palese.
E la gente lo votava, come ha ripetuto fino allo sfinimento Gasparri per anni in tutte le trasmissioni tv, e questo lo legittimava nella sua azione.
Il sistema partito, creato intorno a Forza Italia prima e PDL poi, è il sistema partito a struttura piramidale verticistico per eccellenza, si potrebbe dire il sistema perfettamente gerarchico e verticale. Nella storia questo sistema di governo è durato per secoli ed ha avuto il nome di sistema feudale.

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In questo sistema c’è un rex (legibus soluto, al di sopra della legge, più uguale di altri davanti alla legge, in quanto voluto dal popolo, in quanto “unto dal Signore”), ci sono i vassalli, i valvassini, i valvassori e infine i servi della gleba, che sublimano la loro gioia attraverso i trionfi e le gioie del “principe”.
Era così secoli fa, ma non è che una nazione possa cambiare all’improvviso, e, se si tiene conto che l’uomo Sapiens Sapiens ha poche decine di migliaia di anni, si capisce chiaramente che qualche centinaio di anni non possono fare davvero la differenza, alla lunga il vero retaggio di un popolo viene fuori.
Chiarito il ruolo di leader assoluto di Berlusconi (persino Bossi lo chiamava il “boss” con un linguaggio che la lingua tagliente di Sandro Curzi definì “da banda bassotti”) e avendo già parlato nella prima puntata di Bossi, che in qualche modo aveva una sua autonomia ed un suo “popolo di riferimento”, vediamo le altre figure vassalle del centrodestra italiano.
Escludiamo Casini che è stato “vassallo” solo fino al 2001. Da che divenne presidente della Camera si affrancò in sostanza dal controllo assoluto del boss ed ha proseguito poi per la propria strada al punto da meritare una riflessione a parte.
Parliamo di Fini. Grande mediaticità e capacità oratorie ma contenuti impalpabili (una specie di Veltroni di destra).
Incapace di prendere decisioni forti al momento giusto (avrebbe dovuto liberarsi della “trimurti” Gasparri La Russa Storace da molto prima ma non ebbe il coraggio di farlo), quando sceglie di andare per conto suo nel 2007 e di non salire sul predellino  – “sono il presidente di AN non sono una pecora” (sic!) – non mantiene il punto e già due mesi dopo scioglie il suo partito nel PDL del predellino.
Attende troppo quando cerca di fare cadere il Governo Berlusconi IV e fallisce per 3 voti alla fine di una incredibile campagna acqusiti parlamentare. Un mercato delle vacche che non ha paragoni col passato (ma le vacche, si sa, prima o poi vanno al macello).
Toltosi per sempre dal cono d’ombra berlusconiano si trova a vagare libero ma senza essere leader, anzi finendo, insieme a Rutelli, con l’accodarsi a Casini.
Nel 1993 da leader giovanissimo del MSI si batte per il proporzionale (temendo di finire emarginato in quanto estrema destra), perdendo insieme a Rifondazione Comunista. A differenza di quest’ultima, poco dopo, essendo stato “sdoganato” da Berlusconi, cambia idea e diventa uno degli alfieri del maggioritario, per poi nel 2005, sempre per questioni di convenienza, votare la nuova legge proporzionale – visto che col maggioritario di lì a un anno il centrodestra sarebbe stato asfaltato (nel maggioritario il centrodestra prendeva sempre un 5% in meno rispetto al proporzionale).
Non per convinzione, dunque, ma per opportunismo e per giunta sempre con un attimo di ritardo rispetto ad altri come Berlusconi e Bossi, che avevano senza dubbio più fiuto e visione di lui.

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E Alfano? A detta dello stesso boss non ha il “quid” e ora come ora sembra più il curatore fallimentare di un marchio divenuto ormai tossico piuttosto che un leader di partito. Non ha il controllo vero della struttura, piena di personaggi con notevole potere che rispondono solo al boss e soprattutto qualunque sua decisione può essere sovrascritta in qualsiasi momento dal vero proprietario.

C’è ancora qualcuno che manca all’appello di questa analisi, un leader di una efficacia straordinaria, qualcuno con una visione molto chiara di come indirizzare il Paese, che, pur senza mai candidarsi, ha ispirato e protetto nei momenti difficili Berlusconi. In questi giorni sta tessendo la sua ennesima tela per convincere Montezemolo a rilanciare il centrodestra berlusconiano (progetto al quale potrebbe giocoforza aggregarsi anche Casini, bisogna vedere che cosa ne verrà fuori).
Decenni di trattative fatte in maniera più o meno occulta con il partito comunista e i suoi derivati, con il pentapartito, di cui hanno raccolto l’eredità, con le gerarchie ecclesiastiche, con gli alleati europei, americani e con una quantità di poteri palesi ed occulti in giro per il mondo. Se Berlusconi è stato il “Re Sole” lui è stato senza dubbio “Richelieu“. Se Berlusconi è stato “Eric Draven”, apparentemente immune a qualsiasi attacco (è sembrato per lunghi anni politicamente immortale) lui era senza dubbio “il corvo” che lo proteggeva. Stiamo parlando di Gianni Letta, vero uomo ombra ed eminenza grigia di un piano che da quasi 40 anni sta cercando di modificare l’Italia (nel bene e nel male, a seconda dei punti di vista).
Ma di questo parleremo in una prossima puntata (forse).