Le elezioni in Afghanistan: tutto come prima

Donna in afghanistan

Le elezioni in Afghanistan: tutto come prima 

Con le urne chiuse e i risultati ufficiali ormai quasi definitivi (che darebbero il Presidente in carica Hamid Karzai come vincitore, con una percentuale di circa il 70%) e le immancabili accuse di brogli da parte della parte sconfitta (nella fattispecie il candidato che avrebbe potuto costituire il pericolo maggiore per la rielezione di Karzai, vale a dire l’ex Ministro degli Affari Esteri Abdullah Andullah, dato al 23%), l’Afghanistan si risveglia con una situazione praticamente immutata in confronto ai giorni prima delle elezioni.

I Talebani continuano a circondare la capitale Kabul, facendola anche oggetto di attentati sempre più frequenti e provocando i timori del governo afghano in carica e delle Forze Armate straniere, che vedono la loro influenza scemare sempre di più e i propri uomini continuare a morire sotto i proiettili e sopra le mine degli “Studenti di Dio”. Le elezioni non daranno quella sembianza di stabilità che l’Occidente sperava di portare nel Paese tramite l’esercizio fondamentale dei sistemi democratici: il voto.

Le divergenze tribali e le lotte per il potere tra i signori della guerra sembrano continuare ad essere l’unico fattore che conta nelle decisioni dell’Afghanistan, anche e soprattutto nel momento in cui la popolazione si reca alle urne. Ciò è stato confermato, per esempio, dal fatto che Karzai, per ottenere il consenso degli abitanti del Nord del Paese, abbia dovuto ricorrere alla vecchia alleanza con il criminale di guerra uzbeko Abdul Rashid Dostum, ex combattente filo-sovietico e, successivamente, strenuo nemico e massacratore dei Talebani, attualmente residente in Turchia. Grazie alla sua influenza e alle sue “indicazioni di voto” alla comunità uzbeka in Afghanistan, che conta circa il 7% della popolazione totale, il Presidente in carica pare essersi assicurato la fedeltà degli abitanti settentrionali del Paese.

Tale fetta di popolazione risultava probabilmente ancora più determinante alla luce della forte presenza talebana nel Sud e Sud-Est dell’Afghanistan, che ha fatto sì che in quella parte di territorio l’affluenza alle urne fosse molto bassa, sia come conseguenza della disillusione e della poca fiducia riposta da parte della popolazione nel processo democratico forzatamente introdotto dall’Occidente, sia come risultato delle minacce dei Talebani nei giorni precedenti alle elezioni. Infatti è probabile che molti abitanti della parte Sud-orientale del Paese abbiano rinunciato a votare per evitare di vedersi le dita tagliate o, come pare sia capitato in un villaggio, di essere impiccati nella pubblica piazza fuori al seggio elettorale.

Le elezioni in Aghanistan, pur salutate come una vittoria della democrazia sull’autoritarismo tipico della regione del Medio Oriente allargato, non sono state altro che una mera prova di forza da parte dei Talebani da un lato e, dall’altro, da parte delle gerarchie di potere intrecciate agli interessi tribali, per conservare quel poco di autorità che ancora sono in grado di esercitare sulla popolazione. Tale autorità, a dire il vero, sembra essere assai ridotta, limitandosi alla capitale Kabul (ormai neanche più sicura come prima) e a qualche zona limitrofa. Nei dintorni il caos continua a farla da padrone.

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Il Sud del Paese è ancora la fabbrica di eroina per gran parte del mercato occidentale e le colture di papaveri da oppio non possono essere verosimilmente distrutte, a rischio di fare cadere gran parte della popolazione (che di questo vive) in una mseria ancora più grave di quella in cui versa attualmente e, d’altro canto, i signori della guerra e non ultimi i Talebani ricevono ingenti somme di denaro per auto-finanziarsi dal narcotraffico. Allo stesso tempo, anche membri vicini al governo di Karzai paiono essere interessati agli introiti del traffico di droga, producendo una situazione in cui gli oppiacei, vero “oro afghano”, continuano a mantenere trasversalmente gran parte dei gruppi di potere afghani e la loro produzione in crescita non aiuta l’Occidente a stabilizzare il Paese.

Sul piano puramente militare, le truppe straniere presenti in Afghanistan incontrano sempre più difficoltà per via della guerriglia talebana, ormai pienamente riorganizzata dopo la debacle del 2001-2002, a tal punto da essere quasi passata ad una sorta di controffensiva (che, peraltro, sta producendo gli effetti desiderati, se persino in Italia un partito di governo alleato del Premier Silvio Berlusconi, la Lega Nord, fa appelli al ritiro delle nostre truppe dal pantano afghano). Rimane come sempre l’incognita legata al Pakistan ed ai gruppi di estremisti e guerriglieri che da quel Paese confluiscono in Afghanistan per alimentare la resistenza alle truppe di occupazione e tentare di prendere il controllo totale del Paese. Come già si dice da tempo, è forse proprio sul Pakistan e sulle sue aree sud-occidentali che gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero concentrarsi per cercare di vincere questa guerra che sembra essere sempre più logorante.

Un fattore che potrebbe essere un’arma a doppio taglio è rappresentato dall’uccisione dell’influente leader del movimento filo-talebano pakistano Baitullah Mehsud, avvenuta alla vigilia delle elezioni afghane. Se da un lato è stato eliminato un personaggio chiave della destabilizzazione in Pakistan (ideatore dell’asassinio di Benazhir Bhutto), dall’altra i circa 25.000 uomini che costituivano il suo “esercito” potrebbero finire tra i Talebani più determinati ad agire in Afghanistan (mentre il movimento di Meshud faceva della lotta al regime pakistano la sua priorità). In attesa di altri risvolti politico-militari in Afghanistan, l’Occidente dovrà ancora impegnare molti uomini per uscire vincitore dal conflitto in corso e le elezioni hanno semnplicemente segnato un elemento di continuità (rispetto, però, ad una situazione già negativa) con la destsabilizzazione in corso negli ultimi due anni.

di Stefano Torelli