Pd, il ballottaggio alle primarie e la marginalità di Renzi

La settimana politica in casa Pd riparte dalla “proposta sensata” di Pierluigi Bersani. Adottare per le primarie la regola del doppio turno. Il segretario nazionale ha incluso questa opzione fra quelle plausibili per la stesura di un regolamento della competizione elettorale per la designazione del candidato premier per il centrosinistra nella puntata di stasera di Otto e mezzo. Verso Antonio Di Pietro pone la precondizione di porre fine agli insulti verso il Partito Democratico per entrare a far parte dell’alleanza di governo. All’Italia dei Valori e alle altri componenti progressiste Bersani prospetta un patto di governabilità, in cui ciascun partito ceda porzioni della sua sovranità in favore delle decisioni prese dalla maggioranza della coalizione.

Un’idea da incasellare di indubbia fattura parlamentarista, attribuendo a questo termine il senso della leadership di Bersani, che rifugge con uguale intensità – nella cronaca quotidiana – la proposta del Pdl di importare il semipresidenzialismo francese e – in una prospettiva a lungo termine – un’immagine personalista del comando.

Della Francia, invece, riprenderebbe volentieri il doppio turno tanto da volerlo adottare anche per le primarie per assegnare la leadership del centrosinistra. In verità si possono facilmente unire i puntini e scorgere il pericolo dello stallo segnalato in maniera inequivoca dal primo sondaggio realizzato da Digis e pubblicato da IlRetroscena.it in caso di elezione a turno unico.

Per certi versi il numero uno dei democrat ha potuto trovare conferma di quello che diceva da settimane. In caso di primarie lui sarebbe l’uomo da battere e la sicurezza di vincerle è, ai nastri di partenza della campagna, fondata su un consenso personale superiore a qualsiasi altro aspirante leader. Vendola, Di Pietro e pure Renzi sono ben distanziati.

Con il 31% del gradimento fra gli elettori del centrosinistra, però, Bersani non gode di un consenso ampiamente maggioritario. Vendola incomberebbe col 23% e Renzi col 19%. Ci sarebbe da andare a scommettere ai bookmaker di fiducia che in caso di vittoria col 31% dal giorno partirebbe lo stillicidio per logorare dall’interno Bersani, quando ancora non producesse l’abbandono della coalizione di uno degli sconfitti.

Cosa ricorderebbe ai nostri eroi? Certo, le primarie di Palermo. E non è difficile da immaginare che anche la top three per la corsa a palazzo Chigi un sostanziale pareggio nei consensi dopo campagne elettorali ben orchestrate, specie se Vendola dovesse trovare attorno alla sua candidatura il sostegno di Antonio Di Pietro, forte di un 16% di partenza.

Il doppio turno diventerebbe in questi termini un modo per fornire di un quid inscalfibile di legittimazione il candidato premier – con una base di consenso superiore al 50% dei simpatizzanti di centrosinistra – e un calcolo per neutralizzare la coalizione di sinistra radicale in chiave anti-Bersani.

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Palermo un monito solo per Bersani? Niente affatto. Matteo Renzi a ben pensare è il candidato che da quell’esperienza dovrebbe ripartire. Il Big Bang aveva generato un’attesa di cambiamento troppo forte per finire in un cono d’ombra col passaggio dal governo Berlusconi al governo Monti. E il candido-non mi candido è durato anche per troppo tempo. Finendo agli occhi degli elettori nella classica configurazione del “vorrei, ma non posso”. Piacere piace un candidato simile, ma viene soltanto dopo le due alternative più competitive.

Del resto è proprio a partire dalla Rete, dalle bacheche personali di Facebook a quelle dei giornali che la base di Renzi è sostanzialmente silente – se non sparita – sostituita in larga parte dal gioioso rullo compressore dei grillini. Se non vale la pena sfogliare qualche buon manuale politologico al sindaco di Firenze basterebbe ripassare qualche lezione di marketing.