I mercati siamo noi? Una risposta a Pietro Ichino

I mercati siamo noi? Una risposta a Pietro Ichino

 

Pietro Ichino cerca di rispondere sul suo sito (http://www.pietroichino.it/?p=21949), ad articoli di vari personaggi che di recente hanno criticato la situazione che si è venuta a creare nel nostro rapporto coi mercati, più simili a un dio geloso e insaziabile che non a semplici mezzi.

L’articolo è accattivante, come tante altre presentazioni del libero mercato (ad esempio quella in cui Friedman spiega quante migliaia di persone siano state necessarie, con il loro lavoro, per creare una sola, singola matita, tutte tenute insieme da una forza armoniosa e pacifica…) ma, come queste ultime, finisce per essere una bella favola, un mito, piuttosto che una descrizione realistica della realtà e delle sue contraddizioni.

L’assunto centrale dell’argomentazione di Ichino è uno: i mercati siamo noi. Nel momento in cui ognuno di noi pretende per i propri risparmi il massimo rendimento (compatibile con il livello di rischio che ha deciso di accettare) questi si sta unendo a quel popolo invisibile e sterminato che, come risultante dell’infinità delle proprie scelte individuali determina l’andamento del mercato.

E’ un argomento di indubbia suggestione. Ma che trascura di dire molte cose. Ad esempio che noi, ammesso che siamo il mercato, siamo anche lo Stato. Ed è curioso che nel mercato venga applicato, in genere, esattamente lo stesso principio di delega che in questo momento è sotto accusa nella politica. Come Ichino giustamente nota, spesso “la casalinga di Voghera o l’artigiano di Sao Paulo” non effettuano in proprio le decisioni di investimento (perché i mercati, così come la politica, sono una cosa complicata…) ma delegano tali decisioni a fondi pensione, fondi comuni, intermediari bancari ecc.

Ora, curiosamente, nella finanza avviene proprio ciò che a volte avviene in politica e che è oggetto di continua e ossessiva critica: gli intermediari, coloro che sono delegati a gestire il denaro formano una casta che si appropria di privilegi crescenti (basti pensare ai bonus stellari di trader, analisi, dirigenti  e del loro vertiginoso aumento a partire dagli anni Ottanta). E i privilegi della finanza, sarà pronto ad ammetterlo chiunque, fanno impallidire quelli della politica.

Ma, si risponderà, i bonus e gli stipendi sono assegnati su base meritocratica. Anche ammettendo questo la quota totale dei bonus, ovvero la parte dei profitti che si decide di destinare ai bonus non ha nessun fondamento necessario. Basti pensare che nel 1985 il bonus medio a Wall Street era pari a circa il 60% di un reddito medio di New York. Nel 2006 questa percentuale era balzata a quasi il 400% per scendere nel 2010 al 260%. Non risulta che nel frattempo la casalinga di Voghera o l’artigiano di Sao Paulo abbiano registrato un incremento paragonabile nei rendimenti dei loro fondi pensione.

Ma anche ipotizzando fosse questo il caso ci sono altre, e più gravi, questioni. Ichino elude l’accusa di mancanza di responsabilità e democraticità dei mercati dicendo che i gestori incapaci si dimettono. L’unica cosa di cui questi gestori devono rispondere è il rendimento dei capitali che gli sono assegnati. Per chi possiede grandi capitali questa è certamente la cosa più importante, che fa passare in secondo piano ogni altro fattore. Se un risparmiatore guadagna, poniamo, il 5% (una percentuale ottimistica, di questi tempi) su 100.000 euro di risparmi, a parte il recupero dell’inflazione avrà un guadagno reale, poniamo, di 3000 euro. Se invece un grande investitore guadagna il 5% su 1 miliardo di euro avrà un guadagno reale di 30 milioni. E’ chiaro che per il grande investitore ogni piccola variazione percentuale è estremamente significativa e ha senso perseguirla ad ogni costo. Poniamo ora invece che quei 100.000 euro siano i risparmi di una vita di un lavoratore. Il suo fondo pensione detiene il pacchetto di controllo di una finanziaria che, tra le sue molte partecipazioni detiene anche l’impresa dove lui lavora. Il gestore, che ci tiene a non essere licenziato, fa pressione in assemblea: i rendimenti debbono crescere perché non sono in linea con gli standard del mercato. Gli amministratori della finanziaria per perseguire questo obiettivo decidono, tra le tante cose, di avviare piani di ristrutturazione che prevedono tagli all’occupazione.

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Il nostro lavoratore riceve una lettera che gli comunica che dovrà andare in cassa integrazione. Dunque l’operazione effettuata dal gestore del fondo pensione per aumentare il rendimento del suo capitale (dunque, apparentemente, nel suo pieno interesse) alla fine si ritorce contro di lui, che ne riceve un danno netto. Non solo, anche nel caso in cui il nostro lavoratore non fosse personalmente licenziato, le “operazioni di ristrutturazione” effettuate su grande scala non solo dal nostro gestore, ma anche dai suoi concorrenti, finiranno per aumentare la disoccupazione, diffondere nuovi lavori flessibili e non garantiti, esercitando un effetto deterrente nei confronti delle rivendicazioni salariali che il suo sindacato potrebbe avanzare e quindi, ancora una volta, causando un danno economico per il nostro lavoratore. Tutto questo invece non vale per il nostro investitore da un miliardo di euro che naturalmente ha pieno interesse in tutto questo.

Questo esempio rende chiaro il perché la finanziarizzazione dell’economia dagli anni ’80 ad oggi sia stata accompagnata da un massiccio aumento delle disuguaglianze e dunque, in definitiva, abbia avuto un effetto redistributivo al contrario. E’ intuitivo che chi più ha beneficia maggiormente di elevati rendimenti sul capitale. Non solo: abbiamo fin qui considerato unicamente l’aspetto economico, trascurando gli aspetti umani e sociali che vengono totalmente espunti da questo calcolo. I mercati siamo noi (dove alcuni, come abbiamo visto, pesano molto più di altri in questo noi) ma solo in quanto hominem economici. Si dà per scontato che l’interesse al massimo rendimento del capitale debba sovrastare ed eliminare qualunque altra valutazione. Certo, in teoria lo Stato ha la possibilità di regolare (anche se questo è deprecato dall’estremismo liberista), ma di fatto l’intera architettura è congegnata in maniera da porre lo stato in una posizione subalterna e priva dei reali strumenti per influire.

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Per tornare alla questione della crisi del debito, non è il debito in quanto tale a fare la differenza. Basta citare il caso del Giappone, dove un debito superiore al 200% del PIL risulta sostenibile. Sono gli interessi elevati da pagare sul debito che lo portano su una traiettoria potenzialmente esplosiva. Questo è successo negli anni ’80 e rischia di succedere ora. Questo avviene perché alla mano pubblica sono stati scientemente sottratti tutti gli strumenti per intervenire e calmierare questi interessi. Perché si riteneva che il fatto che lo Stato fosse sottoposto al giudizio dei mercati fosse cosa giusta e benefica. Anche questo va ricordato, è una decisione politica che ci ha portato a questa condizione, non una condizione naturale e inevitabile. Così come non è un fato ineluttabile il potere dei fondi pensione. E’ una decisione politica quella di mettere le persone nella condizione di doversi fare una pensione privata.

Certo, lo Stato e la politica hanno talvolta mostrato di non saper svolgere il loro ruolo nella maniera migliore. Ma, concettualmente, rimane il fatto che in un sistema democratico, pur con tutti i suoi difetti, tutto può essere sottoposto a discussione pubblica e il cittadino insoddisfatto può, oltre che a votare, contando come tutti gli altri, impegnarsi in politica per cercare di cambiare le cose.

Invece dare il potere di ultima istanza ai mercati finanziari significa lasciare determinare il nostro destino a un mondo dove il principio che vale è: un dollaro un voto. Non era esattamente questo il sogno di emancipazione della modernità.