Mercati e sovranità nazionale

Questa crisi fa risaltare in grande evidenza un conflitto: quello tra mercati finanziari e sovranità politica in generale e nazionale in particolare. In realtà si tratta però di una questione molto più antica e complessa di quanto si pensi normalmente.

Innanzitutto bisogna dire che il rapporto tra queste due entità non è sempre e solo di opposizione, anzi.
Secondo la dottrina liberale classica il mercato è un’istituzione “naturale”. Gli uomini possiedono un’inclinazione naturale allo scambio dei prodotti del loro lavoro. Quando si trova in possesso di un’eccedenza rispetto ai propri bisogni fondamentali, e di un’eccedenza di un certo tipo, dipendente dall’avere un’abilità specifica che altri non hanno, l’essere umano avvertirebbe il bisogno di scambiare i propri prodotti con altri prodotti da individui con diverse abilità, soddisfando così i reciproci bisogni. Man mano che la società diventa più complessa e questi scambi aumentano di numero e si fanno più regolari il mercato si “stabilizza” e diventa un’istituzione, e la fissazione del prezzo evolve da trattativa discrezionale privata a qualcosa di approssimativamente fissato dalla media delle transazioni (il prezzo “di mercato”, appunto).

Qual è il problema con un racconto del genere? Che si tratta di un modellino astratto, di una finzione immaginaria.  Marx definiva efficacemente questo genere di racconti come “robinsonate”, dal titolo del romanzo Robinson Crusoe. Robinson è un borghese moderno perfettamente educato che finisce per un incidente in un’isola deserta, ovvero in una situazione simile a quello che noi ci immaginiamo essere lo stato “naturale”, proprio dei “selvaggi”. Ora, le robinsonate, così come gli esperimenti mentali di filosofi come Locke, Hobbes o Rousseau, che immaginavano un ipotetico stato di natura riflettono molto di più il modo di pensare dell’epoca dello scrittore che non un’evoluzione realistica delle cose come storicamente potrebbero essere avvenuto.

Storicamente il mercato è un’istituzione che nelle civiltà antiche riveste un ruolo piuttosto limitato. Il mercato era tenuto generalmente tra popolazioni o comunità diverse (potenzialmente nemiche, con le quali l’alternativa era la guerra) e non tra membri della stessa comunità. Lo scambio all’interno della stessa comunità avveniva piuttosto secondo convenzioni o norme sociali informali, che non erano quasi mai ispirate al principio dello scambio di equivalenti. Il commercio era praticato da determinate classi sociali che generalmente erano guardate con diffidenza all’interno della società.

Come nacque allora il mercato come lo conosciamo ora, ovvero come un sistema concorrenziale composto da un vasto numero di attori che contribuiscono attraverso l’incrociarsi della domanda e dell’offerta alla fissazione di un prezzo e a una regolazione ordinata delle transazioni? Una ricerca fondamentale in materia rimane quella di Karl Polanyi, figura eclettica di origini ungheresi, economista, filosofo e antropologo, che scrisse nel 1944 il suo classico, “La grande trasformazione”.
Polanyi spiega, con una vasta esemplificazione storica, come in realtà il mercato sia una creazione consapevole operata dall’autorità politica. Senza l’azione coercitiva dello Stato le trasformazioni e gli sconvolgimenti sociali, anche molto violenti, che accompagnarono la nascita del mercato autoregolato non sarebbero stati possibili. Non solo, ma il processo che avvenne in Europa su scala secolare poté essere osservato in versione “concentrata” nei contesti coloniali, dove, per “creare” il mercato dove da parte delle popolazioni locali non vi era alcuna spinta a farlo, l’autorità politica dovette, ad esempio, imporre una tassa ad hoc affinché gli abitanti locali fossero costretti a procurarsi la moneta necessaria per pagarla scambiando altri beni.

Il mercato fu deliberatamente creato in base a determinate idee per le quali il maggior bene comune per la comunità sarebbe derivato dall’astenersi dello Stato da pressoché qualunque iniziativa che esulasse dalla garanzia dell’efficacia del sistema giudiziario e dell’ordine pubblico. Il punto è che non esiste alcuna prova che ciò sia vero. Polanyi sostiene che, al contrario, il funzionamento senza ostacoli del mercato alla lunga finisca per mettere a rischio la società, infliggendo gravi sofferenze a larghe fasce di essa ed erodendo progressivamente le basi dei valori sociali, ivi compresi quelli su cui il mercato stesso si fonda (l’etica del lavoro, lo spirito imprenditoriale costruttivo ecc.). Per questo l’azione del mercato innescherebbe un’azione contraria “di difesa” della società, che può esprimersi sotto forma di movimenti spontanei oppure organizzarsi politicamente, tesa a contrastare gli effetti nefasti che l’agire non regolato dei mercati infligge alla società stessa.

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Un altro aspetto della questione consiste nel fatto che i mercati, una volta instaurati dallo Stato tendono ad autonomizzarsi da esso e a costituirsi come un potere autonomo, al quale gli stessi stati finiscono per essere sottoposti. Questo avvenne nella sua forma paradigmatica nel corso dell’Ottocento. All’epoca il gold standard costituiva un meccanismo automatico internazionale di aggiustamento. Se uno stato si trovava in una situazione di deficit delle partite correnti, l’oro defluiva dal paese. In questo modo la base monetaria si restringeva, i prezzi e i salari si abbassavano e di conseguenza le merci nazionali recuperavano competitività sui mercati internazionali e il deficit si riequilibrava. Il problema è che il processo di aggiustamento poteva essere spesso violento e disordinato e passare per un drammatico aumento della disoccupazione e dei fallimenti. Ad ogni modo fu nel corso dell’Ottocento che si formò la finanza internazionale nella sua forma classica, come un insieme di entità sovranazionali che finanziava gli Stati oltre che le grandi imprese imprenditoriali. Certo, fin dall’inizio dell’età moderna esistevano grandi banchieri che effettuavano prestiti ai sovrani, oltre a operare sul mercato dei cambi, ma nell’Ottocento il sistema raggiunse una perfezione e una ramificazione mai raggiunte prima. La rete di influenza su cui esso poteva contare gli permetteva di incidere in larga misura sugli stessi eventi e sulle scelte politiche, dato che dalle loro decisioni di investimento dipendeva il futuro dei governanti e delle nazioni.

Questo grande sistema entrò in crisi prima con la guerra mondiale e poi, in maniera drammatica con la crisi del ’29. Il sistema, che per un certo tempo aveva generato effettivamente equilibrio, produceva ora instabilità. Fu la crisi del ’29 l’occasione per quella rivoluzione culturale costituita della riflessione di Keynes e dalla ripresa in grande stile dell’intervento pubblico in economia. La mano pubblica, che era stata soppiantata dalla mano invisibile dello stato, riprese per un cinquantennio il centro della scena. In Italia questo si concretizzò nella grande parabola dell’IRI che, va ricordato, prima dei noti abusi della fase terminale, fu uno dei principali artefici dell’industrializzazione del secondo dopoguerra e del miracolo italiano.

Al centro di questo mutamento di paradigma c’era l’importante idea che l’investimento dovesse tenere in considerazione anche parametri di rilevanza sociale, come l’occupazione, e che non necessariamente questo fosse in contrasto con i risultati economici anzi, in determinate circostanze li potesse addirittura migliorare (i trent’anni del secondo dopoguerra sono stati il più straordinario e stabile periodo di crescita economica della storia dell’umanità).

Naturalmente questo richiedeva una relativa limitazione della totale libertà d’azione dei mercati finanziari. La separazione tra banche di deposito e banche di investimento, i controlli sui movimenti dei capitali, la disponibilità delle leve della politica monetaria alle scelte di politica economica erano i corollari necessari del compromesso keynesiano. Compromesso che venne progressivamente smantellato negli anni ’70, in seguito a eventi come lo shock petrolifero, il venir meno del paradigma di Bretton Woods, la deregolamentazione dei mercati finanziari. Ancora una volta, bisogna nella situazione attuale liberarsi dall’idea che ci troviamo in preda a forze naturali e inevitabili. La situazione attuale è il risultato di scelte politiche effettuate in passato, che non sono irrevocabili. Ed è su questo piano che si gioca la vera partita, quella determinante. Il resto sono in buona parte specchietti per le allodole.