Identità italiana e interesse nazionale. Breve storia di due concetti difficili

Gli italiani si sa, non si sono mai distinti per uno spinto sentimento patriottico. Anzi, un certo sentimento “antiitaliano” ha spesso fatto parte del sentire di alcuni strati della società italiana. Eppure quantomeno il problema dell’identità nazionale e dell’identificazione di un interesse generale proprio della nazione italiana ha una lunga storia, che dura da molto prima dell’unità italiana.

E’ noto che l’Italia ebbe un’unificazione tarda. I numerosissimi staterelli dell’Italia comunale avevano dato origine, nel periodo che va dall’inizio del secondo millennio al Trecento ad uno straordinario sviluppo economico e culturale, che li poneva in una posizione di avanguardia in Europa. Poi ne seguì un periodo di conquiste che ridusse il numero degli Stati a relativamente poche entità.

 

E’ in questo quadro, all’inizio del Cinquecento, che Machiavelli scrisse il suo Principe per invocare l’avvento di un “principe nuovo” che tentasse la grande impresa dell’unificazione nazionale. Purtroppo le cose non andarono in questo modo e l’Italia raggiunse l’indipendenza, assieme alla Germania, più di tre secoli dopo.

Una volta avvenuta l’unificazione si pose però il problema di unificare il sentire di popoli così diversi, che non condividevano nemmeno la lingua. L’identità nazionale italiana, in realtà, era esistita da molto prima che si concretizzasse come fatto politico, ma sempre come fatto culturale, proprio di ristrette élite intellettuali. La cultura, la letteratura, la lingua colta erano sempre stati i principali elementi di unificazione italiana. Non stupisce allora che anche il Risorgimento fu un processo politico portato avanti con grandissima determinazione da una ristretta élite. E le élite italiane (le più illuminate almeno), da allora in avanti, dovettero sempre porsi il problemi di come trasmettere questo sentimento di identità nazionale alla maggioranza della popolazione. La scuola, il servizio militare obbligatorio, la guerra, in parte la Resistenza, e poi nel secondo dopoguerra i grandi processi di migrazione interna, la televisione, l’avvento della civiltà dei consumi contribuirono a unificare maggiormente la popolazione italiana.

Ma se il sentimento di una comune appartenenza ad un’unità nazionale indubbiamente crebbe nel corso della storia d’Italia, il contenuto di questa appartenenza fu qualcosa di sempre molto problematico. Cosa significava essere italiani? Quali erano gli elementi unificatori, i valori fondanti, della nazione? Aveva senso in Italia parlare di “interesse nazionale”? La questione fu complicata ancora di più dal fatto che una delle stagioni politiche in cui maggiore era stata l’insistenza sul tema della nazione, il fascismo, fu comprensibilmente vista come qualcosa da cui allontanarsi.

Nella prima Repubblica l’Assemblea Costituente rappresentò effettivamente un momento alto di unità nazionale, nel quale le forze che avevano preso parte alla Resistenza e i tre grandi partiti di massa (il Partito comunista, socialista e la Democrazia cristiana) trovarono una sintesi molto avanzata. Ma questa Costituzione rimase per lungo tempo largamente inattuata. La guerra fredda, la divisione del mondo in blocchi spinsero a mettere in primo piano la pregiudiziale anticomunista, che per un cinquantennio precluse al PCI l’accesso al governo. La frattura mondiale si riprodusse con grande intensità in Italia, paese considerato strategico perché “di confine” tra i due blocchi e per la presenza del più grande partito comunista d’Occidente.

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Ciò non significa che i due partiti principali, la Democrazia cristiana e il Partito comunista, non avessero una visione dell’interesse nazionale. Per quanto riguarda in particolare quest’ultimo, l’atto decisivo fu la svolta di Salerno, con la quale Togliatti, nel 1943, accentuò il carattere nazionale del Partito e accettò il terreno democratico dello scontro, rinunciando alla prospettiva di un’insurrezione violenta. Ciononostante al partito comunista non fu mai permesso l’accesso al governo. La stagione della solidarietà nazionale degli anni Settanta, che avrebbe potuto forse mettere capo a una partecipazione diretta dei comunisti al governo, fu tragicamente interrotta dalla morte di Aldo Moro.

Per quanto riguarda invece la Democrazia cristiana il problema principale era il grande proliferare di correnti diverse al suo interno, che rendeva difficile un’azione di governo incisiva su temi complessi. Questa situazione era determinata, data la particolarità della situazione italiana, dalla pluralità dei referenti della DC. Essendo sostanzialmente sempre al governo la DC si concepiva come un partito-Stato, che doveva rappresentare al suo interno la totalità della società italiana. L’articolazione interna delle correnti rifletteva questa pluralità della rappresentanza: dalla sinistra di Dossetti fino alle aree più reazionarie. A rendere complessa la definizione di un concetto di interesse nazionale, concorreva, per quanto riguarda la DC, un doppio vincolo. Il primo, comune a molti altri paesi, era l’appartenenza alla sfera d’influenza americana e all’alleanza atlantica. Ovviamente questo poneva dei vincoli alla sovranità, espliciti e impliciti (dopo la caduta del muro Andreotti rivelò dell’esistenza di Gladio, una rete segreta che avrebbe dovuto attivarsi in caso di invasione comunista). Il secondo vincolo, specifico della DC, era dato dalla relazione speciale che questo partito intratteneva con il Vaticano. Se nella teorizzazione iniziale di De Gasperi il partito avrebbe dovuto essere indipendente, accettando pienamente il principio della separazione tra Stato e Chiesa, nella prassi le influenze e le pressioni furono molte e costanti.

Tuttavia c’è da dire che nonostante la complessità e l’importanza di questi vincoli, nella prima Repubblica un certo concetto di interesse nazionale era presente e, pur tra mille ostacoli e logiche antagoniste, riuscì a operare. La gestione dell’industria di Stato nei primi vent’anni del dopoguerra costituisce un buon esempio di questa visione. Le scelte lungimiranti che furono compiute allora si rivelarono essere, nel lungo periodo, sicuramente nell’interesse del popolo italiano. In particolare va citata l’impresa di Enrico Mattei che, attraverso l’Eni cercò di assicurare all’Italia una fornitura petrolifera a basso costo (fondamentale per un paese importatore) e le basi di una politica energetica nazionale. Inoltre, sviluppando relazioni con i paesi mediterranei e mediorientali, inaugurò quello che fu l’asse più originale della politica estera italiana. Pur nel quadro di una generale appartenenza alla sfera d’influenza americana, l’Italia costruì, allora e in seguito, una politica autonoma nel Mediterraneo, con paesi che si trovavano in posizione di neutralità tra i due blocchi. La partita si complicò ancora negli anni Settanta, con la crisi petrolifera, la rivoluzione in Libia e le tensioni che ne seguirono. Si tratta di una materia complessa e controversa, perchè intrecciata da vicino con alcune vicende oscure della storia italiana, ma che va compresa all’interno della situazione storia dell’epoca.

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Con la transizione alla seconda Repubblica il concetto di interesse nazionale cadde abbastanza in disgrazia. Da un lato il processo di integrazione europea, dall’altro le tendenze separatiste della Lega e infine una visione del mondo condivisa che negava l’importanza dei confini nazionali all’interno di un mondo regolato dal libero mercato convergevano nel negare la rilevanza di questa idea.

La crisi mondiale prima e dell’Euro poi ci spinge oggi a rivedere le nostre certezze. Senza che questo debba significare un ritorno e un ripiegamento nell’orizzonte degli Stati nazionali, quello che stiamo apprendendo è come un’unificazione unicamente basata su un principio tecnocratico sia insufficiente a reggere un’unione sovranazionale. Se un’unione dev’essere – e in un mondo come quello di oggi sarebbe fondamentale per contare – questa non può essere costruita prescindendo dalla politica. La grande carenza del processo di integrazione è consistito in questo: nell’aver creato strutture amministrative europee, lasciando al livello nazionale la rappresentazione degli interessi e la lotta politica (il Parlamento europeo non ha finora conquistato il ruolo che gli spetterebbe). Solo la costruzione di un’unità concreta europea, sul piano culturale e sul piano di un realistico compromesso politico tra gli interessi nazionali potrebbe superare in maniera definitiva le difficoltà in cui siamo immersi.

Ma per poter fare questo passo, per sedersi a un tavolo per contrattare il ruolo dell’Italia in questo futuro, bisognerebbe prima riscoprire l’idea di interesse nazionale e comprendere quale questo sia per l’Italia nel mondo di oggi.