Dalla “lady di ferro” al “principe ereditario”, la nuova leadership del Partito Popolare Danese

Prossima fermata: il governo. Nel giorno del suo salutoPia Kjærsgaard traccia la rotta per il Partito Popolare Danese che ha guidato negli ultimi diciassette anni. Sabato scorso durante il congresso annuale del partito ha formalizzato un addio annunciato a metà agosto: il testimone passa nelle mani di Kristian Thulesen Dahl.

Kjærsgaard si è congedata dalla leadership con un discorso che ha toccato passato, presente e futuro. Ha attaccato l’attuale governo di centrosinistra guidato dalla laburista Helle Thorning-Schmidt (un esecutivo “campione mondiale di promesse non mantenute”) e ha incoronato Kristian Thulesen Dahl, con lei sin dall’inizio. “Kristian è stato al mio fianco tutti questi anni” ha dichiarato Kjærsgaard, descrivendo il suo successore come industrioso, costruttivo, creativo.

Le è scappata qualche lacrima. Non ha nascosto la tristezza. L’emozione l’ha sopraffatta per un attimo sul finale, giusto prima di chiudere il discorso e prendersi l’applauso dei quasi mille membri del partito che hanno partecipato al congresso. La donna di ferro della destra danese ha lasciato la guida del suo partito (e dire ‘suo’ in questi casi non è eccessivo) accompagnata da un’ovazione. Fare un passo indietro è stata una sua decisione: di certo nessuno le ha imposto nulla.

Pia Kjærsgaard è stata una protagonista di questi anni. Figura discussa e discutibile, vero: ma dotata di un carisma che nessuno ha mai messo in dubbio, neppure i suoi tantissimi avversari. Ha fiutato il vento, ha intercettato il malessere, lo ha canalizzato e cavalcato. Senza mai assumere cariche ministeriali, Kjærsgaard ha ugualmente segnato un’epoca. Il suo sostegno esterno ai governi conservatori che hanno guidato la Danimarca dal 2001 al 2011 (prima col premier Anders Fogh Rasmussen, poi con Lars Løkke Rasmussen) sono stati anni trascorsi in prima linea. “Anni fantastici”, ha commentato Kjærsgaard. Con il Partito Popolare Danese tutti hanno dovuto fare i conti, e più di una volta il governo è dovuto scendere a patti non potendo fare a meno di quel tesoretto di voti che Kjærsgaard ha assicurato –non certo incondizionatamente – all’esecutivo.

Il Partito Popolare Danese è nato nel 1995, quando Pia Kjærsgaard insieme ad altri decide di lasciare il Partito del Progresso dove militava dalla fine degli anni ’70. La segue anche Kristian Thulesen Dahl. Kjærsgaard fonda il Partito Popolare Danese: data di nascita 6 ottobre 1995, primo convegno ufficiale l’anno successivo, a giugno, quando viene eletta all’unanimità come leader del partito. Non tutti le danno credito. Dovranno ravvedersi. Alle elezioni del 1998 il riscontro elettorale è del 7,4%, ma è un rodaggio; l’asticella tocca il 12% nel 2001. Il partito rimarrà intorno a quella cifra per un decennio, toccando quota 15,3% nel 2009, in occasione delle elezioni per il Parlamento europeo.

Lotta all’immigrazione, lotta al multiculturalismo, lotta alle politiche di Bruxelles. “Difendiamo i valori danesi”: è stato questo uno degli slogan del partito. Concetti sciorinati con una dialettica semplice ed efficacissima. Sul Politiken, Christian Kock – docente di retorica all’università di Copenhagen – ha detto che sul piano della comunicazione verbale l’attuale premier Helle Thorning-Schmidt avrebbe molto da imparare da Pia Kjærsgaard. L’ormai ex leader del Partito Popolare Danese ha sempre saputo comunicare con forza e chiarezza, ed è per questo – ha spiegato Kock – che ha guadagnato e mantenuto consensi nel corso degli anni.

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La Danimarca deve preservare la sua identità; impossibile integrarsi se non si condividono i medesimi valori; l’immigrazione è un pericolo; le comunità musulmane stanno ai primi posti nelle classifiche sulla disoccupazione, i furti, le truffe: concetti sparsi di una leader e di un partito senza mezze misure che alla lotta all’immigrazione ha affiancato nel corso degli anni le idee più classiche della destra sociale, come condizioni di lavoro per le persone più deboli – anziani, disabili – ma anche più severità per reati come lo stupro. E poi c’è l’euro, e poi c’è l’Unione europea: il Partito Popolare Danese critica da sempre Bruxelles giudicandolo una sovra-struttura che ostacola la volontà del popolo, l’esatto contrario dello Stato sovrano. La moneta unica, poi, ha già ampiamente dimostrato il suo fallimento: meglio farne a meno, dicono da anni nel Partito Popolare Danese. Idee condivise anche da altre forze politiche di destra in Scandinavia, dai Veri Finlandesi di Helsinki ai Democratici Svedesi di Stoccolma. Indizio di un sentimento trasversale che attraversa il nord Europa.

Potendo far valere il peso politico di venti e più parlamentari, negli ultimi dieci anni Pia Kjærsgaard è riuscita a portare a casa più di un successo. Soprattutto nel campo dell’immigrazione. C’è il Partito Popolare Danese dietro il contestato ‘sistema a punti’ utilizzato per anni in Danimarca per giudicare le richieste per i ricongiungimenti familiare e i permessi di soggiorno. Conoscenza della lingua, studi, esperienze professionali: tutto fa punteggio, e bisogna superare una certa soglia. Che – sempre su pressione del partito Popolare Danese – è stata portata sempre più in alto, con effetti facilmente immaginabili: il numero di ricongiungimenti familiari è drasticamente calato nel corso degli anni.

L’Unione europea e tante organizzazioni umanitarie non hanno apprezzato tanta severità, e non hanno apprezzato neppure ciò che la Danimarca ha deciso di fare nel maggio del 2011: reintrodurre i controlli alle frontiere.

Il governo guidato allora da Lars Løkke Rasmussen cedette al pressing del Partito Popolare Danese (che in parlamento promise di ricambiare sostenendo la proposta di riforma pensionistica) e annunciò di voler stabilire controlli doganali ai confini con Germania e Svezia. Claus Hjort Frederiksen, ministro delle finanze dell’allora governo danese, spiegò che “negli scorsi anni abbiamo visto crescere i crimini transfrontalieri: questa decisione punta a frenare il problema”. “Nessuna sospensione degli accordi di Schengen”, dissero i vertici del governo di Copenhagen, cosa che però non bastò a evitare le proteste di Berlino e di Bruxelles. Erano i mesi della guerra in Libia e della Primavera Araba, l’estate era alle porte: “I controlli alle frontiere sono un diritto per i nostri cittadini” spiegò Pia Kjærsgaard: “Abbiamo problemi con gli immigrati dell’est Europa che stanno venendo qui e corriamo il rischio di avere gli stessi problemi con quelli dal Nord Africa”.

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Riproporre un controllo doganale per ottenere un obiettivo preciso: meno crimini commessi in Danimarca, meno sforzi da parte di polizia e sistema giudiziario, meno risorse spese. Perché, secondo il Partito Popolare Danese, troppe corone finiscono per essere sprecate. I clandestini rappresentano un peso per l’economia danese, lavorano senza pagare le tasse, non hanno voglia di integrarsi: ridurne il numero in circolazione in Danimarca serve a portare più sicurezza per le strade e a destinare le risorse finanziarie statali ai settori della società danese. Questo il succo dello Kjærsgaard–pensiero. Sintetizzando (e ricorrendo alle parole usate dai vertici del Partito Popolare Danese), le frontiere aperte e l’immigrazione di massa minacciano il welfare danese.

Del resto, pochi giorni prima dell’annuncio di riproporre i controlli alle frontiere, sui giornali danesi era comparso un calcolo del governogli immigrati non occidentali costano alle casse statali 15,7 miliardi di corone all’anno; quelli che provengono dai paesi occidentali producono ricchezza per 2,2 miliardi. Erano i mesi in cui il pressing del Partito Popolare Danese si era fatto più forte, perché più debole era la posizione del governo di Lars Løkke Rasmussen, messo in crisi dai sondaggi negativi e pressato dalle elezioni in arrivo. Ed erano soprattutto i mesi in cui la crisi economica stava mordendo, la disoccupazione saliva, il Pil andava in rosso. In un quadro politico ed economico così delicato, il Partito Popolare Danese ha proposto ricette simili a quelle di altre destre europee: ‘prima i danesi’, adattando il motto dei Veri Finlandesi di Helsinki, che hanno sbancato le elezioni del 2011 al grido di ‘Prima i Finlandesi’.

Finisce l’epoca di Pia Kjærsgaard e comincia l’epoca di Thulesen Kristian Dahl come in un naturale passaggio di consegne. Il quotidiano Politiken l’ha definito ‘il principe ereditario’. Un’elezione puramente formale, la sua: “Sono orgoglioso della fiducia riposta in me”, ha detto sabato al congresso del partito, prima di aggiungere: “Siamo pronti”. Cambia la leadership ma non cambierà il Partito Popolare Danese. Cambierà probabilmente qualcosa sul piano della comunicazione, considerato che il 43enne viene descritto come un uomo dall’approccio più analitico, con capacità di calcolo e di negoziazione. Le voci all’interno del partito, raccolte dal quotidiano Jyllands-posten, descrivono Dahl come un politico che saprà parlare alle imprese meglio di come ha fatto Kjærsgaard: cosa che, se si dimostrasse vera, porterebbe il Partito Popolare Danese a sfidare i conservatori sul loro terreno. Il traguardo resta quello indicato da Pia Kjærsgaard: il governo.