Ucraina, altre due generazioni per poter cambiare

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In ucraina nessun cambiamento si paleserà prima di due generazioni. Lo dicono gli studi sui perpetrati effetti sociali del modello sovietico, lo dicono i dati che rintracciano un disinteresse del 97% dei giovani verso la politica, lo dice soprattutto un giorno passato tra i banchi dell’università. Questi giovani, pur nati a ridosso della caduta dell’Unione Sovietica, sono stati socializzati all’interno di un modello che li induce ancora oggi a credere che ci sia sempre qualcuno pronto a pensare per loro. Sono inermi, sfiduciati, passivi, eterni infanti.

Non conoscono la responsabilità, l’impegno in prima persona, la fatica di esporsi, dibattere, discutere tra pari. Le amare conclusioni tracciate in queste prime righe sono frutto della lezione che ho tenuto ieri all’università. L’attualissimo tema, per studenti del quinto anno di Relazioni Internazionali, in un paese che non può concepire la propria Storia al passato ma deve costruirla quotidianamente in un eterno presente, si proponeva di indagare i processi di allargamento dell’Unione Europea verso est, con un focus particolare sull’Ucraina. L’approccio scelto era la voluta provocazione, la ricerca di un costruttivo scontro verbale. In un’università che mantiene la cecità critica dei propri studenti, nutrendoli solo di nozioni da imparare a memoria, era mia intenzione porre davanti alla loro evidenza fatti che non avrebbero più permesso il loro voltarsi dall’altra parte.

Volevo un confronto duro, volevo sentirli parlare, sentirmi criticare, volevo insomma scuoterli. Così terminata la presentazione, invito gli studenti ad aprire il dialogo con la seguente frase “You can say that everything I’ve said was bullshit, I’m fine with it, but you should bring evidences to support your position”, potete dire che tutto ciò che ho sostenuto sin ora erano cazzate, a me va benissimo, l’importante è che portiate argomentazioni alla vostra contro-tesi. Nel primo intervento una ragazza, mostrando il suo risentimento, mi ha velatamente accusato di appoggiare chi osteggia l’ingresso dell’Ucraina nella Ue; nel secondo un ragazzo ha evidenziato i miei sentimenti anti-ucraini; nel terzo sono stato ritenuto responsabile di aver definito, cosa che seppur penso non ho detto, la società ucraina anti-democratica. Dopo qualche minuto, scuotendomi di dosso lo scotto delle accuse, ri-oriento il dibattito sulle opportunità di cambiamento all’interno dello scenario ucraino e, di tutta risposta, gli studenti cambiano bersaglio.

Il testimone dell’imputazione passa da me alle malvagità dell’élite al governo che, tra mille sproloqui demagogici, vengono energeticamente illustratemi dalla classe. Pur condividendo i capi di imputazione sottopongo agli studenti un’ulteriore provocazione: “Pensate veramente che se domani, intorno a questo tavolo, vi sia raccolta tutta la classe dirigente ucraina, scoppi una bomba e muoiano tutti, qualcosa cambierà in questo Paese? Io penso di no”. Inizia così la discussione sull’importanza della società civile nei processi di cambiamento. Concetto ai più disconosciuto, percepito come astratto, assumente concretezza nel dato che presento loro, frutto di un recente studio, che attesta l’impegno di soli due ucraini su dieci all’interno di organizzazioni, associazioni, della società civile. Dato immediatamente confermato dal piccolo sondaggio svolto in classe dove su dodici persone nessuna ha mai preso parte in attività proposte dalla società civile. Una studentessa in quel momento alza la mano e mi chiede “Ma dove ci è possibile iniziare ad esercitare il ruolo di società civile?”. La mia laconica risposta non tarda ad arrivare: “Qua”. “Ma qua noi veniamo ad imparare concetti che non conosciamo da chi li conosce, ossia i professori”. “No, qua voi venite a discutere criticamente tra pari i concetti che vi vengono illustrati dai vostri professori”. Sì, perché l’università ucraina, oltre ad essere didatticamente organizzata come un liceo, non è percepita in primis dagli studenti come luogo di critica, di dibattito, di discussione.

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L’imperante modello gerarchico, eredità dell’oscurantista periodo sovietico, è tuttora radicato all’interno dell’istituzione e così gli studenti, percependo le verità dei loro professori come Verità Ultime, non osano l’azzardo di porle sotto la loro lente critica, cercando contro-argomentazioni che possano sbugiardarle. Si sottopongono a ciò e accettano il loro status di cecità critica sino a che, eventualmente, un giorno diventeranno anche loro professori e la magia dello status professionale garantirà anche alle loro verità di diventare Ultime. Terminata la parentesi sul ruolo dell’università come spazio della società civile, una studentessa risponde così alla mia richiesta di indicare soggetti capaci di giocare il ruolo di forza trainante il cambiamento: “Beh, io penso che la nuova generazione possa veicolare il cambiamento”. La ascolto, rimango in silenzio una decina di secondi, e poi riparto all’attacco: “Scusa, ma perché parli in terza persona della nuova generazione, quando la nuova generazione sei tu, è lei, è lui, è lei? Non nascondetevi sempre dietro un terzo soggetto, descritto come oggettivo e distaccato rispetto a voi stessi, per delegargli compiti che oggi Voi siete costretti a svolgere. Voi siete la nuova generazione, voi siete i giovani, voi siete la futura classe politica, voi siete la futura classe dirigente. Non parlate in terza persona di questi soggetti altrimenti quando realizzerete che i soggetti, di cui parlavate con distacco, eravate voi stessi sarà troppo tardi e questo paese dovrà attendere una nuova generazione finalmente capace di riconoscere se stessa per iniziare i suoi tanto necessari processi di cambiamento. Ti giro quindi la domanda, in che modo Voi, ossia quel soggetto che dovreste definire come un Noi ma che percepite come un Essi, può cambiare le sorti di questo Paese?”. Silenzio. Dopo qualche minuto comunico che la lezione può terminare qui, possono lasciare l’aula e impiegare i restanti venti minuti di lezione per discutere insieme i contenuti della lezione e l’atto d’accusa da me provocatoriamente avanzato. Illustro il tema della successiva presentazione e mi congedo. Saluto la docente e gli impiegati del Dipartimento e mi dirigo verso casa. Sono svuotato, esausto, intontito.

Non pensavo potesse farmi così male palpare la resa di una generazione. Ne sono abituato, la mia è una generazione reazionaria. Ma qui è diverso. Ciò che mi ha veramente scosso, e a cui imputo il mio sentirmi deprivato dopo la lezione, è vedere, in un contesto in cui la Storia è eterno presente, il tangibile orizzonte di un cambiamento ma prendere specularmente coscienza della mancanza di attori capaci di interpretarlo, di giovani volenterosi di costruire il proprio futuro. Ieri ho capito la concretezza dei dati e degli studi. Serviranno almeno due generazioni per cambiare le cose. E potrebbero non bastare.