La grande contraddizione del segretario Bersani

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La grande contraddizione del segretario Bersani

 

La firma della carta d’intenti del centrosinistra dovrebbe aprire una nuova fase nello schieramento politico che da sempre rappresenta l’alternativa alla destra e al berlusconismo nel nostro paese.

Si tratta di una sorta di memorandum che stabilisce le priorità politiche dell’alleanza e il criterio con cui risolvere le controversie più spinose (riunione congiunta dei gruppi parlamentari e voto a maggioranza).

Firmata da Bersani, Vendola e Nencini la carta d’intenti però permane un documento quanto mai vago. Chi in maniera legittima chiede “ma in cosa differisce il pensiero di Renzi rispetto a questo documento?” probabilmente non potrà che sentirsi rispondere “In nulla: è un documento così vago da non poter che essere condiviso in toto!”.

Questa situazione è una costante del pensiero e dell’azione politica bersaniana, che da questo punto di vista risente di una certa dose di fatalismo.

Eletto segretario, quali alleanze? “Vedremo”. E il perimetro della coalizione alterativa a Berlusconi? “Tutte le forze responsabili”. Quando si faranno le primarie “Ne parliamo in un secondo momento, occorre discuterne con altri”.

Il non prendere posizione sul niente per paura (sì, paura, un concetto molto più drammatico e triste rispetto a ciò che può trasparire leggendo questa parola su un giornale online) e per il timore di rompere un patto di sindacato che bene o male ha garantito uno status quo favorevole al gruppo dirigente. Che però ha avuto come risultato quello di incollare il partito sempre a quella percentuale, incapace di intercettare quei voti moderati provenienti dalla destra o ostaggio dell’antipolitica dilagante.

Nonostante tutto prima o poi in politica i nodi vengono al pettine. E se l’arte del compromesso, come la vita, necessita di scelte prima o poi il conto bisogna pagarlo.

Emergono dunque due profonde contraddizioni nell’alleanza tripartita. Contraddizioni che la carta d’intenti, per quanto possa apparire singolare, alimenta.

Come molti hanno notato infatti nella carta non si fa riferimento all’agenda Monti. Anche in questo caso siamo di fronte all’ennesima vaghezza. Infatti il tema è stato volontariamente bypassato per cercare di sanare, invano, la più grande contraddizione dell’alleanza: su quali basi può reggersi un’alleanza di governo composta dal Pd, che sostiene l’attuale esecutivo, e da Sel che lo accusa di portarci dritti dritti alla macelleria sociale?

Non è una disputa nominalista e quando si compone un’alleanza organica le scelte future hanno più valore rispetto a quelle del passato. Ma le riforme di Monti e del suo governo appaiono oggi come oggi, basti pensare al tema della riforma previdenziale, come riforme “spartiacque” e di carattere strutturale.

Non porsi dunque il problema che una parte di coalizione sostiene queste riforme mentre un’altra parte le osteggia in maniera incessante può avere solo due significati: o si intende rimandare successivamente, al momento del governo, il rapportarsi a queste riforme (col rischio di un collasso del governo in tempi brevissimi) oppure semplicemente si lancia un segnale implicito di accantonamento della stessa agenda Monti. E non è detto che l’Italia possa permettersi un così truffaldino rifiuto di una serie di riforme a cui siamo vincolati da vincoli internazionali ed europei.

Un problema analogo a quello del rapporto con Monti si pone anche sul tema dell’allargamento ai moderati: perché Bersani non ci spiega come potrà allargare la partecipazione al governo all’Udc se una parte della stessa sua coalizione è fortemente contraria?

Non si può rimandare il tutto a dopo, non si può passare la vita nell’ignavia.

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Soprattutto perché tutto questo rischia di ritorcersi contro Bersani stesso che ha iniziato la sua campagna elettorale per le primarie dalla stazione di servizio gestita dal padre, in quel di Bettola.

Una mossa politica molto narrativa dagli intenti sacrosanti: solo i grandi paesi danno ai propri cittadini le grandi opportunità. E per certi versi è un concetto molto “made in Usa” quello del figlio del benzinaio che può diventare addirittura capo del governo.

Ma nella più grande democrazia del mondo questo spirito è accompagnato da uno senso della responsabilità e dell’etica che vede l’uomo al centro e sopratutto fautore del proprio destino. Le scelte dell’uomo che determinano il suo destino, non l’attesa snervante dell’ineluttabile.

Con questo triste e logorante rimando, con questa poca chiarezza espositiva la linea di Bersani rischia di apparire sempre di più come una forma di fatalismo poco incline a chi vorrebbe far diventare il nostro paese “la terra dell’opportunità”.