Le conseguenze delle presidenziali sul destino della Corte Suprema

presidenziali e corte suprema

I presidenti vengono e vanno, la Corte Suprema è per sempre” così affermo, con tono scherzoso, il presidente William Howard Taft interpellato sul ruolo di SCOTUS (Supreme Court of the United States, ndr) nel governo del paese.

Taft, presidente per il partito repubblicano dal 1909 al 1913, certamente se ne intendeva. Non solo aveva nominato numerosi giudici di quella stessa corte, ma ne sarebbe stato il Chief Justice dal 1921 al 1930 quando, eccezione più unica che rara nel panorama politico statunitense, aveva rinunciato ad una tranquilla vecchiaia per accettare la chiamata d’urgenza del presidente Warren Harding a sostituire il giudice Edward White, deceduto da poco.

Mentre l’America si interroga su chi vincerà le elezioni della prossima settimana, se verrà confermato Barack Obama oppure vincerà l’imprenditore mormone Mitt Romney, sono in pochi a chiedersi quale effetto questa scelta potrebbe avere sui futuri equilibri politici (e giudiziari) della nazione.

Il presidente è, secondo il detto popolare, “l’uomo più potente al mondo”, ma c’è un gruppo di nove giudici, nominati a vita, che detengono un potere ancora maggiore. La Corte Suprema è stata, in passato, protagonista di decisioni storiche che hanno cambiato le sorti degli Stati Uniti e del Mondo, più di qualsiasi presidenza.

Un esempio potrebbe essere la recente decisione della corte sulla costituzionalità di “Obamacare” ma chi non si ricorda di quell’altra decisione, presa a maggioranza relativa di 5 a 4, con la quale la stessa Corte “nominò” George Bush Junior nuovo Presidente degli Stati Uniti nell’anno 2000, impedendo al candidato democratico, ed allora vicepresidente uscente, Al Gore di proseguire nelle richieste di riconteggio del voto in Florida.

La storia è piena di altre decisioni storiche votate a maggioranza semplice, dal 5 a 4 che sancì la legalità dell’aborto in “Roe vs Wade” a quello che abolì la pena di morte per i minorenni in “Roper vs Simmons”.

Vi chiederete forse come queste decisioni siano collegate al risultato delle prossime presidenziali. La spiegazione è semplice. Mentre i “justices” componenti la corte sono difatti giuristi di fama mondiale, le loro nomine sono spesso strettamente politiche. Pur essendo sottoposti a conferma da parte del Senato, è assai raro che un presidente nomini un candidato che non sia fedele alla linea del proprio partito.

Per quanto il presidente Harry Truman amasse scherzare dicendo “quando nomini una persona alla Corte Suprema, egli cessa di essere tuo amico”, sono rarissimi i casi di un presidente repubblicano che ha nominato un giudice democratico, o viceversa. I presidenti preferiscono sempre un voto “certo” e “fedele” ad uno incerto o probabilmente contrario laddove una delle loro decisioni o leggi dovesse arrivare alla suprema prova di “costituzionalità”.

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La Corte Roberts (dal nome del Chief Justice) è attualmente composta da cinque giudici conservatori e quattro progressisti. E’, nei fatti, una corte profondamente divisa.

Antonin Scalia, ideologo conservatore, venne nominato alla corte dal presidente RonaldReagan e anche gli altri quattro giudici appartenenti alla maggioranza conservatrice hanno in comune l’essere stati nominati da presidenti di estrazione repubblicana. Antony Kennedy da Reagan, Clarence Thomas da George Bush Senior, Samuel Alito e il Chief Justice John Roberts da George Bush Junior. Non fa eccezione l’ala progressista dove l’ideologo Stephen Breyer e la giudice Ruth Bader Ginsburg vennero nominate da Bill Clinton, mentre Sonia Sotomayor, prima donna ispanica a far parte del consesso e Elena Kagan sono nomine recenti di Barack Obama.

In una corte così divisa è inevitabile chiedersi chi effettuerà la prossima nomina. Molti giudici sono difatti “veterani” che potrebbero considerare di ritirarsi (nonostante la loro nomina sia “a vita”), ma difficilmente lo farebbero se il presidente eletto non fosse uno del loro partito dato che una nomina a loro “ostile” cambierebbe gli equilibri della corte per decenni a venire.

In caso di vittoria di Barack Obama sarebbe probabile un ritiro da parte della giudice Ginsburg che, oltre ad essere il membro più anziano della corte avendo appena compiuto 79 anni, è anche ammalata di cancro e potrebbe considerare un ritiro anche il 74enne Stephen Breyer. Dovesse invece vincere Romney si potrebbe invece intravedere un ritiro dei 76enni Scalia e Kennedy o addirittura del giovane (64 anni) Clarence Thomas, unico membro afroamericano della corte, che non sembra gradire più di tanto il suo incarico (è l’unico membro della corte che da quando è stato nominato nel 1991, non ha mai parlato durante le udienze, limitandosi solo a votare “along the party lines” – come vuole il partito).

Ma cosa succederebbe nel caso in cui un giudice dovesse ritirarsi per malattia o dovesse venire a mancare quando un presidente dell’opposto partito è in carica?

Garantita sarebbe una “ferocebattaglia al Senato (dove i democratici manterranno probabilmente la maggioranza) per evitare nomine troppo “estremiste”. Lo stesso giudice Clarence Thomas venne confermato alla corte in un risicatissimo voto per 52 a 48 dopo che venne accusato da una sua ex segretaria di molestie sessuali ma la battaglia “principe” degli ultimi decenni è sicuramente quella che portò alla bocciatura del giudice nominato da Ronald Reagan nel 1987 in sostituzione del moderato Lewis Powell: Robert Bork, il maggiore ideologo della ideologia “originalista” della giustizia e esponente politico di estrema destra.

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Memorabile fu il discorso nel quale Edward “Ted” Kennedy, “il leone del Senato”, si oppose alla nomina di Bork affermando: “L’America di Robert Bork è un’America dove le donne sarebbero costrette agli aborti clandestini, dove le persone di colore sarebbero ancora segregate, dove la polizia avrebbe il diritto di fare irruzione nelle abitazioni dei nostri cittadini senza alcun mandato, dove agli studenti sarebbe vietato insegnare la teoria dell’evoluzione e dove scrittori e artisti potrebbero essere censurati dal Governo. Il Presidente Reagan è ancora il nostro Presidente ma non deve né può essergli permesso di imporre la sua visione estremista della costituzione sulle prossime generazioni di americani”. Questo discorso, e la successiva bocciatura della nomina per 58 a 42, entrò nella storia col termine “borking Bork” e da allora la parola “borking” indica l’opposizione da parte di un senatore alla nomina di un giudice alla Corte Suprema. 

 

Che dire invece della reazione degli scolari progressisti quando giornali e televisioni prospettarono una nomina da parte del Presidente George Bush Junior dell’allora ministro della Giustizia, e altro esponente neoconservatore, Alberto Gonzales. Patricia Ireland, famosa esponente del femminismo americano, arrivò ad affermare: “Il presidente Bush vuole dividere ancora di più una già divisa Corte Suprema”.

Recente è invece la reazione di noti esponenti conservatori alla nomina da parte di Barack Obama di Sonia Sotomayor e Elena Kagan, ma in particolare di quest’ultima, esponente liberale dell’università di Harvard. “Il Presidente Obama non cerca empatia, professionalità o capacità in un candidato alla Corte Suprema, l’unica cosa che gli sta a cuore è che sia un ardente esponente dell’estrema sinistra” disse lo stratega conservatore Karl Rove.

Il 6 Novembre gli americani saranno chiamati al voto. Ma non decideranno solo chi sarà il loro presidente per i prossimi quattro anni, decideranno che cammino intraprenderà la nazione per decenni a venire.