Un altro metro di misura per la ricchezza: strada per uscire dalla Grande Crisi?

Un altro metro di misura per la ricchezza: strada per uscire dalla Grande Crisi?

“Siete nella cacca fino alle orecchie. Ancora non ve ne rendete conto, ma siete la “Generazione dei tre niente”: niente lavoro, niente reddito, niente risorse”

Questa è l’inizio di un’allocuzione del famosissimo Gordon Gekko, personaggio immaginario del film cult Wall Street che una volta uscito di carcere va a fare il conferenziere e di fronte a un gruppo di giovani studenti esordisce con questa frase.

Tralasciando per un momento il resto del discorso, che fa diventare Gekko un personaggio sì immaginario, ma non troppo lontano dalla realtà, la chiave interpretativa che viene fornita da queste poche parole è per certi versi geniale al punto da sembrare un uovo di Colombo.

La Crisi nata nel 2007 con lo scoppio della bolla sub prime ha di fatti avuto diverse mutazioni, termine preso in prestito dall’epidemiologia, ma che rende l’idea di come essa sia più un virus che una malattia curabile con un paio di aspirine amare: da crisi finanziaria è diventata una crisi macroeconomica, di conseguenza microeconomica,  quindi sociale, politica e, sommata a una chiara e latente crisi ambientale, diventa a pieno titolo una crisi antropologica.

Queste mutazioni sono una conseguente all’altra e mettono in chiara evidenza l’incapacità degli attuali metodi di misurazione dell’economia di trovare un valore in grado di riassumere lo stato di salute di una Nazione o, perché no?, del mondo intero.

A livello accademico il dibattito si sta facendo spazio tra mille difficoltà, ma la semplificazione permette a chiunque di capire perché il problema è il metodo di misura.

Da decenni si parla di Prodotto Interno Lordo (PIL), ovvero, in estrema sintesi, della somma di tutta la ricchezza che viene generata all’interno di uno Stato. Si tratta di una misura macroeconomica dalla quale derivano aspetti che spesso si intersecano con la vita dei privati cittadini più di quanto si possa immaginare. Un Paese che per tre trimestri consecutivi ha una decrescita del PIL viene considerato in recessione, la recessione porta a maggiori rischi di insolvenza per chi detiene titoli di quello Stato, le agenzie di rating abbassano il merito di credito, i Governi devono riuscire a pagare gli interessi e fanno cassa aumentando le tasse per evitare avvitamenti, se ciò non avviene prontamente il rischio è un ulteriore peggioramento della situazione. In ogni caso maggiori interessi sul debito portano a un aumento del costo del denaro e quindi contrarre un mutuo diventa più oneroso, si comprano meno case, le aziende che lavorano nel settore vanno in crisi, lasciano a casa dipendenti che non hanno più redditi, si riducono i consumi e altre aziende vanno in crisi. Insomma, un film che chiunque sia digiuno di economia ha visto negli ultimi 6 anni.

E proprio qui sta il fulcro della frase di Gekko: nel lungo termine, se la situazione non viene miracolosamente salvata da una innovazione tecnologica senza precedenti, si potrebbe tranquillamente prevedere un azzeramento delle economie occidentali a favore delle economie emergenti.

Nasce però una domanda alquanto intrigante: se non ci fosse stata la crisi il PIL avrebbe potuto continuare a crescere all’infinito? La risposta è banalmente NO, per un semplice motivo: il Pianeta Terra non è infinito, non ha risorse infinite e non ha popolazione infinita. Una volta soddisfatti tutti i bisogni primari e secondari degli esseri umani e degli animali non ci sarebbe più nulla da fare. Quindi il problema è il modo con cui misuriamo ciò che è bene o male per una Nazione.

Gli accademici si stanno scervellando per trovare una soluzione a questo problema e, per quanto essa possa essere a portata di mano, dovranno lottare con chi vorrà utilizzare il PIL per mantenere inalterata la propria posizione di rendita.

Una divertente presentazione alla TED Conference di un paio di anni fa da parte di uno statistico vide la nascita di un acronimo curioso: HPI, ovvero, Happy Planet Index, in parole povere l’indice che misura la felicità del pianeta: si tratta di un mix di rilevazioni che mettono insieme alla ricchezza in termini nominali anche la presenza di servizi, la bontà delle scuole, il livello qualitativo della sanità, la durata della vita e l’impronta ecologica oltre ad altri fattori meno economici e più sociali. Per pura curiosità nel sito www.happyplanetindex.org è possibile scoprire che il Paese più felice del mondo è il Costa Rica.

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Prima però di fare tutti i bagagli per quella destinazione va precisato che tutto ciò è sperimentale. Anche in Francia l’ex Presidente Sarkozy aveva istituito una commissione per la ricerca di un indicatore alternativo al PIL (presieduta dal premio Nobel Joseph Stiglitz) e persino qui in Italia l’ISTAT ha definito il BES (Benessere Equo Solidale), forse qualcuno ricorderà che pure il Sole 24 Ore ogni anno stila la classifica della vivibilità nelle città Italia. Nelle ultime giornate è stato nominato il Presidente dell’ISTAT Enrico Giovannini come componente della Commissione Economica istituita dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per trovare un punto di sintesi tra i programmi dei partiti politici ormai entrati in una stasi alquanto pericolosa per la nostra Nazione. Enrico Giovannini è sempre stato un forte sostenitore di questa chiave di lettura e della ricerca di indicatori più adatti ai nostri tempi.

Ad ogni modo, finora il lavoro più completo, seppur depositario di premesse e condizioni di realizzazione enciclopediche, è quello di Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi. Parte da un concetto abbastanza semplice: invece di considerare il reddito medio si considera quello mediano ovvero il potere di acquisto del soggetto che è più ricco della metà dei contribuenti e più povero dell’altra metà. Un esempio aiuta a comprendere meglio questo concetto: se in una città di 100mila abitanti con un reddito medio di 15mila euro se improvvisamente annoverasse tra i propri abitanti una persona con un reddito di 15 milioni di euro, improvvisamente la media della città salirebbe e 16.500 euro, ma il reddito mediano resterebbe invariato: la presenza del facoltoso abitante non incide sullo sviluppo della città a meno dei propri consumi, generalmente bassi.

L’esempio scricchiola chiaramente perché nelle analisi non viene considerato solo il reddito mediano, ma anche tutta una serie di elementi che sono di carattere qualitativo e quindi la difficoltà è la loro misura. Si tratta di un punto di partenza che per la prima volta tende a cambiare i paradigmi della valutazione economica che tiene conto anche di fattori sociali e ambientali, probabilmente il passaggio è chiaramente di ridefinizione dei paradigmi dell’economia che, però, negli ultimi anni ha chiaramente abdicato alla sua funzione sociale.

È una strada, chiaramente non facile da percorrere, ma potrebbe essere una soluzione per evitare che il personaggio immaginario di Gordon Gekko non sia troppo reale.

Ivan Peotta