Il referendum in Gran Bretagna sulla legge elettorale

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Le ultime elezioni politiche del maggio 2010 hanno rappresentato un evento storico per la Gran Bretagna: infatti, se da sempre si sono affermati governi monopartitici, paradigma dello stesso modello Westminster, per la quarta volta in cento anni la competizione elettorale del maggio 2010 ha prodotto un hung parliament, ovvero un Parlamento dove nessun partito gode della maggioranza assolut. Ed è ormai trascorso quasi un anno da quando in Gran Bretagna governa un insolito esecutivo di coalizione conservatore-liberale, sotto la guida dei leader dei due partiti, David Cameron come Premier e Nick Clegg come Deputy Prime Minister: entrambi, all’indomani delle elezioni politiche, hanno necessariamente cercato una mediazione al fine di trovare un accordo su un programma di governo (The Coalition – Our programme for Government) tale da esprimere nel miglior modo possibile sia le posizioni dei conservatori che quelle dei liberaldemocratici. Uno dei punti chiave dell’accordo di coalizione è stato il compromesso relativo al referendum sul sistema elettorale: la modifica del sistema elettorale è infatti da sempre il cavallo di battaglia dei liberaldemocratici, la formazione maggiormente penalizzata dal maggioritario di tipo plurality in vigore e, pertanto, è stata da questi posta come condizione al momento di sottoscrivere l’accordo di coalizione con i conservatori. Il governo ha così presentato, nel luglio 2010, il Parliamentary Voting System and Constituencies bill, ovvero un disegno di legge volto ad istituire il referendum (il quale sanciva che “A referendum is to be held on the voting system for parliamentary elections”) e a prevedere anche la riduzione, da 650 a 600, del numero dei deputati ai Comuni, approvato poi nel mese di febbraio 2011. Così, il 5 maggio scorso, in occasione del primo anniversario del primo esecutivo di coalizione britannico del XXI secolo, il Regno Unito ha votato un referendum sulla legge elettorale il cui quesito recitava: At present, the UK uses the “first past the post” system to elect MPs to the House of Commons. Should the “alternative vote” system be used instead?.

È bene ricordare che, nella patria del bipartitismo quasi perfetto e dei collegi uninominali, il partito liberale ha da sempre premuto per abbracciare un modello elettorale più “equilibrato”, che potrebbe dare ai partiti terzi un peso politico maggiore, forse anche decisivo, per la formazione dei governi e delle maggioranze. Al momento attuale, infatti, il Regno Unito, per eleggere i parlamentari alla Camera dei Comuni, utilizza il sistema first past the post, il cui nome deriva dal gergo delle corse dei cavalli, dove c’è solo un vincitore: in altre parole, il territorio è diviso in collegi, in ogni collegio i partiti propongono un candidato e, dopo le elezioni, il candidato che ottiene almeno un voto più di tutti gli altri nel collegio viene eletto. Non esiste, quindi, una distribuzione proporzionale dei seggi in base al numero dei voti e, infatti, il sistema fa parte della famiglia dei c.d. sistemi maggioritari. Diversamente, il sistema sottoposto al voto degli elettori britannici tramite referendum e denominato alternative vote, prevede che gli elettori continuino a eleggere un candidato per ogni collegio, ma in un modo diverso: il giorno delle elezioni, infatti, sulla scheda elettorale potranno segnare i candidati in ordine di preferenza, invece di votarne uno solo. In tal modo, al momento dello spoglio, saranno contate innanzitutto le prime preferenze, i primi posti: se nessun candidato ha una maggioranza assoluta di prime preferenze, il candidato con meno prime preferenze di tutti viene scartato e vengono prese in considerazione e distribuite agli altri candidati le seconde preferenze di chi aveva votato per lui. Il processo continua quindi in questo modo finché non si arriva a un unico candidato che ottiene la maggioranza assoluta di preferenze. Da un punto di vista tecnico, si noti che la formula rientra sempre nella famiglia dei sistemi maggioritari, ma diventa un majority a turno unico in collegi uninominali che, rispetto all’attuale plurality, garantisce il fatto che per essere eletti serve una maggioranza assoluta e permette all’elettore di esprimere un voto di protesta, con la possibilità quindi di riallocare la propria preferenza ai fini della scelta del governo.

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Le prime proposte di modifica del sistema elettorale in voto alternativo furono avanzate nel 1909-1910 e ripetute nei primi anni ’30: i progetti di quegli anni fallirono e l’ipotesi di riforma è stata avanzata nel tempo soprattutto dal partito liberale. Il governo Blair, poi, fin dal 1997 si è interessato della questione: nel 1998, nonostante l’istituzione di un’apposita commissione, la Jenkins Commission, e  la pubblicazione di un rapporto nel quale si proponeva un sistema misto AV and Top Up, il tutto rimase lettera morta. Si ricorda inoltre che, nel corso di questi ultimi anni, il Regno Unito ha adottato diverse formule per scegliere i rappresentanti nelle elezioni di Londra, nelle Assemblee devolute e nelle elezioni europee e che, già all’inizio del 2010, sempre con esito negativo, si è registrato un tentativo referendario per l’introduzione del voto alternativo, quando Gordon Brown ha inserito nel Constitutional Reform and Renewal bill 2009-10 la proposta di tenerlo entro il 31 ottobre 2011. Nonostante ciò, è bene ricordare che, in generale, i britannici non amano i referendum o, meglio, il referendum è un istituto eccezionale per l’ordinamento britannico. Fino agli anni ’70 del XX secolo, il Regno Unito veniva considerato uno degli emblemi della democrazia rappresentativa e, stante il tradizionale principio della sovranità parlamentare, era ritenuto praticamente incompatibile con lo strumento referendario. A partire da quel periodo, invece, si è cominciato a ricorrere al referendum, ma soprattutto a livello locale e per la devolution. A livello nazionale, fino ad oggi, era stato usato solo il 5 giugno 1975, quando si votò sulla permanenza del Regno Unito nella Comunità Europea, ovvero rispetto ad un quesito estremamente “pragmatico” e, pertanto, compatibile con il principio della sovranità parlamentare. Non è dunque un caso se nell’ordinamento britannico manca una definizione della natura dell’istituto referendario e una sua univoca disciplina: non esiste nemmeno una regola generale in merito al quorum di votanti necessario alla legittimità della consultazione. Ad ogni modo, forse a fronte della sottesa diffidenza britannica nei confronti dell’istituto referendario, in merito al quesito su cui gli elettori sono stati chiamati ad esprimersi lo scorso 5 maggio, non pochi sono stati i dubbi sollevati nel dibattito politico dottrinario: anzitutto si è trattato dell’effettività di un cambiamento rilevante nei risultati elettorali, e quindi nella formazione dei governi, nel caso di affermazione del sistema del voto alternativo; in secondo luogo, si è trattato dell’opportunità o meno della scelta di sottoporre a referendum un tema così complesso e tecnico come quello delle formule elettorali; un’ulteriore critica ha riguardato la possibilità di scelta fra due sole alternative.

Ad ogni modo, è interessante notare come, su una così complessa questione elettorale, intimamente legata allo stesso funzionamento della forma di governo, i partiti abbiano assunto posizioni diverse e, in alcuni casi, piuttosto ondivaghe. I liberaldemocratici, insieme ai partiti minori, si sono spesi attivamente nella campagna referendaria a favore del cambio di legge elettorale, i conservatori hanno fatto lo stesso ma esprimendo parere contrario, mentre il partito laburista non ha dato un’indicazione ufficiale ai suoi iscritti. La campagna referendaria è sembrata poi così esasperata nei toni e poco interessata all’approfondimento del quesito agli elettori, in particolare circa i risvolti del referendum sul piano della forma di governo, che forse non è azzardato parlare di un’abdicazione da parte dei partiti rispetto alla loro fondamentale funzione di raccordo tra cittadinanza e istituzioni. Testimonianza ne sono gli spot referendari che, dal lato dei sostenitori dell’alternative vote, hanno raffigurato quello attuale come un sistema che costringe i parlamentari a guadagnarsi il sostegno della maggioranza e pertanto da cambiare in virtù del pluralismo, mentre dal lato dei fautori del sistema attuale first past the post, si è prospettata una violazione della regola “one person, one vote” (quando piuttosto si concede una prima preferenza di protesta ai sostenitori dei partiti minori di modo da permettergli di influenzare il risultato finale della maggioranza di governo con la seconda preferenza).

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Ad ogni modo,  i risultati del voto referendario, già ampiamente preannunciati dai sondaggi, hanno visto la vittoria del “no” al cambiamento del sistema elettorale con il 67,9 % dei voti: dunque una pesante sconfitta per il liberaldemocratici. I liberali si sono ritrovati “sconfitti” non solo sull’accordo della coalizione di governo, ma anche nei risultati delle elezioni amministrative in Scozia, Galles e Irlanda del Nord – tenutesi lo stesso giorno del referendum – il cui esito è stato il peggiore degli ultimi 30 anni. Nonostante sia Cameron che Clegg abbiano affermato che il risultato referendario non ha inciso sugli equilibri interni alla coalizione di governo, in seguito al crollo di popolarità testimoniato dai sondaggi, con un elettorato che non ha del tutto condiviso la politica di sostegno al partito al governo di Cameron, il ruolo del leader dei liberaldemocratici risulta indebolito ed alcuni temono addirittura una revisione del programma di governo in senso conservatore. In conclusione, se unanimemente si confida che l’insolito esecutivo di coalizione conservatore-liberale, nato dalle urne di un anno fa, non sia a rischio, non sembra comunque così scontato immaginare che l’hung parliament, dove nessun partito gode della maggioranza assoluta per la quarta volta in cento anni, possa durare ancora a lungo.