Speciale ‘Nordland’: l’Islanda al voto

Johanna

Islanda: è stata una partita a due, come anticipato dai sondaggi. Tutti gli altri staccati. In Islanda il centrodestra ha vinto le elezioni tenutesi sabato. Con il 26,7 per cento dei voti, il Partito dell’Indipendenza torna a essere la principale forza politica del paese. Al secondo posto il Partito Progressista con il 24,4. Saranno loro a formare il nuovo governo. Crolla invece l’esecutivo uscente.

L’Alleanza Socialdemocratica del primo ministro Jóhanna Sigurðardóttir si ferma appena al 12,9 per cento. L’alleato di governo, la Sinistra-Movimento Verde, raccoglie il 10,9. La somma dei due voti la dice lunga: 23,8 per cento, meno di un islandese su quattro ha confermato la fiducia a coloro che hanno guidato l’isola nei quattro (complicatissimi) anni appena trascorsi.

In Parlamento entrano soggetti nuovi come il Futuro Radioso (8,2 per cento) e per un soffio anche il Partito dei Pirati (5,1 per cento). Altri nove piccoli partiti non sono riusciti a superare la soglia di sbarramento del 5 per cento.

Partito Progressista e Partito dell’indipendenza non dovrebbero avere problemi a formare un esecutivo. I colloqui sono già cominciato. Da soli hanno la maggioranza dei seggi e i punti di incontro sul terreno politico non mancano. Entrambi ad esempio non vedono di buon occhio l’ingresso dell’isola nell’Unione europea. L’esito elettorale favorevole al Partito dell’Indipendenza ha risolto da sé quello che poteva rappresentare il problema più ostico, vale a dire la scelta del capo del governo. Toccherà a Bjarni Benediktsson, classe 1970, leader del Partito dell’Indipendenza.

Il risultato del voto consegna uno messaggio double-face. È difficile capire se l’Islanda sia cambiata oppure meno. E le impressioni, a caldo, lasciano supporre di no. Perché se è vero che la presenza di deputati del Futuro Radioso e del Partito dei Pirati fa di per sé notizia (confermando la diffidenza di una parte della popolazione nei confronti della tradizionale classe politica), è altrettanto vero che al governo sono tornati proprio quei partiti cacciati a inizio 2009 con settimane e settimane di proteste di piazza. Allora a dover rassegnare le dimissioni era stato il premier Geir Haarde, leader del Partito dell’Indipendenza. Il voto di sabato riconsegna l’isola a quella stessa forza politica, e il governo che nascerà sarà composto dagli stessi partiti che hanno guidato l’Islanda dalla metà degli anni ’90 sino alla crisi finanziaria.

La situazione economica dell’isola è profondamente diversa rispetto al 2008: la disoccupazione è tornata ad essere bassa e l’economia a girare. L’inflazione resta il nemico numero uno. Gli islandesi però sembrano aver dato poco peso alle statistiche sullo stato di salute della nazione e hanno votato pensando al proprio portafoglio, molto più leggero rispetto al passato. Una famiglia su dieci non riesce a far fronte nei tempi stabiliti ai pagamenti dei mutui, ad esempio.

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Il centrodestra ha giocato la sua campagna elettorale promettendo un abbassamento delle tasse e un alleggerimento proprio del peso dei mutui immobiliari. Il governo uscente ha pagato il diffuso malcontento per una politica di austerity che ha evitato la bancarotta dell’isola ma ha anche lasciato gli islandesi più poveri. E così si chiude amaramente l’esperienza del governo di centrosinistra, un governo ritrovatosi al potere sull’onda della rabbia popolare nel febbraio del 2009 e poi confermato nel voto di aprile dello stesso anno. In quell’occasione, l’Alleanza Socialdemocratica raccolse il 29,8 per cento.

La premier Sigurðardóttir aveva annunciato mesi fa di non correre per una riconferma, lasciando il timone del partito nelle mani di Árni Páll Árnason. Una mossa che non è servita a evitare il tracollo elettorale. È un destino, quello del governo guidato da Sigurðardóttir, che ricorda quanto accaduto altrove in giro per l’Occidente: un governo lodato all’estero per il modo in cui ha gestito la gravissima crisi del 2009 (raccogliendo il plauso del Fondo Monetario Internazionale, delle agenzie di rating e della comunità mondiale) ma congedato senza tentennamenti dalla popolazione. qualche giorni fa, l’agenzia Bloomberg ha raccolto l’opinione di Eirikur Bergmann, docente di scienze politiche all’università di Bifröst: “È difficile diventare popolari tagliando i servizi e alzando le tasse”. Una sintesi efficace.