Scandinavia tra governi che nascono e governi in difficoltà

Governare i governi: dopo il voto di dieci giorni fa, in Islanda proseguono i colloqui per la formazione del governo.

Sigmundur Davíð Gunnlaugsson, leader del Partito progressista e premier incaricato, avrebbe raggiunto un’intesa con il Partito dell’Indipendenza. Ma sul tavolo restano da affrontare ancora i temi più scottanti – come ad esempio la gestione dei debiti delle famiglie con mutui sulle spalle. C’è però ottimismo. Bjarni Benediktsson, che guida il Partito dell’Indipendenza, ha dichiarato che i colloqui non dovrebbero protrarsi oltre l’inizio della prossima settimana.

In Svezia, invece, potrebbe nascere un asse politico tra socialdemocratici e verdi. Lo ha scritto a inizio settimana il quotidiano Aftonbladet. Non si tratterebbe di un’alleanza pre-elettorale a tutti gli effetti, ma di un accordo per vincere le elezioni del 2014 e poi governare insieme. Per entrambi potrebbe trattarsi di una mossa vantaggiosa. Intanto, la strategia dei socialdemocratici sembra sempre più chiara. Puntare forte sul tema del lavoro e attaccare frontalmente il premier. Cosa che si traduce in una serie di affondi espliciti: è Reinfeldt il responsabile della disoccupazione, è Reinfeldt il responsabile dei problemi che ci sono nell’assistenza sanitaria, è Reinfeldt il responsabile di una scuola che a detta dei laburisti non funziona come dovrebbe.

Scintille pure in Norvegia. In questi giorni i riflettori se li sono accaparrati l’attuale premier, il laburista Stoltenberg, e la persona che secondo i sondaggi prenderà il suo posto: la leader della Destra, Erna Solberg. I due si sono sfidati a distanza.

Stoltenberg ha messo in dubbio la capacità del centrodestra di guidare il paese, ha invitato gli elettori a non cedere ai ‘seduttori’, ha usato l’ironia (“è una nuova ed emozionante esperienza  essere accusati di irresponsabilità della Destra”) e ha giocato la carta dell’abbassamento delle tasse, annunciando una riduzione del carico fiscale per le imprese in modo da favorire il mercato interno. Solberg ha risposto affermando che in otto anni il governo di centrosinistra ha speso troppo e investito poco (Stoltenberg ha ribattuto sciorinando numeri che dimostrerebbero il contrario), ha negato di voler procedere a massicce privatizzazioni, ha accusato il premier di aver reso la Norvegia troppo dipendente dal petrolio, ha parlato della necessità di avere una istruzione migliore, che passa anche attraverso l’aumento degli stipendi agli insegnanti. Insomma politica economica, welfare, conti pubblici: la campagna elettorale norvegese si gioca sui più tradizionali temi politici.

Del resto l’economia e la gestione delle casse statali sono il cruccio di tutti i governi occidentali. La Scandinavia non fa eccezione. In Finlandia, ad esempio, da mesi ormai si discute intorno alle strategie del governo. La scorsa settimana, l’Yle ha intervistato diversi economisti. Risultato: bocciati gli sforzi dell’esecutivo per incentivare l’economia finlandese, l’aumento delle tasse non stimolerà la ripresa, la politica di austerity non aiuterà il paese a ripartire. La maggior parte degli esperti ritiene che nei prossimi mesi la disoccupazione crescerà ancora.

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In Danimarca, invece, siamo alle solite. L’esecutivo della laburista Thorning-Schmidt è alle prese con i problemi all’interno del proprio recinto. I rapporti tra gli alleati sono tesissimi. La leader del Partito Popolare Socialista, Annette Vilhelmsen, in questi giorni ha provato a dare la carica ai suoi: il partito deve lottare per i disoccupati, altrimenti chi lo farà? Uno scatto di reni che passa per una critica alla linee guida del governo di cui il partito fa parte. Il fatto è che il Partito Popolare Socialista è sull’orlo di una crisi di nervi. I sondaggi di fine aprile hanno dipinto scenari apocalittici (addirittura al 2,8%), e all’interno della formazione politica quasi tutti sono pronti a incassare un duro colpo alle elezioni amministrative di novembre. Ottenere il 5% dei voti per molti sarebbe un risultato accettabile.

Non bastasse, la stessa Annette Vilhelmsen è ormai considerata da molti dei suoi come una figura di transizione destinata prima o poi a farsi da parte. Sondaggi e risultati elettorali potrebbero accelerare il processo di cambiamento: l’ennesimo in pochi mesi. La battaglia annunciata sui sussidi di disoccupazione sembra l’ultima carta che la leader intende giocarsi. Ma sui sussidi di disoccupazione, il governo ha ricevuto critiche pure dall’Alleanza Rosso-Verde che assicura all’esecutivo un appoggio esterno. Rispetto a poche settimane fa, però, gli affondi del partito fanno meno notizia. A fine aprile, sulle colonne del Berlingske Tidende, l’analista politico Thomas Larsen spiegava bene la parabola dell’Alleanza Rosso-Verde: il braccio di ferro che per settimane ha contrapposto il partito ai laburisti sembra essere stato vinto dai secondi. L’Alleanza Rosso-Verde ha puntato spesso i piedi, ha alzato la voce ma non ha ottenuto praticamente nulla. Andare fino in fondo con le minacce avrebbe significato far cadere il governo e riconsegnare il paese al centrodestra. Cosa che tanti elettori di sicuro non avrebbero apprezzato. Ma anche così il partito s’è ritrovato in un angolo, a mani vuote.  Johanne Schmidt-Nielsen, leader dell’Alleanza Rosso-Verde, ha riconosciuto di aver ottenuto molto poco, aggiungendo però che tanti elettori e tanti deputati socialdemocratici la pensano in realtà come loro. A conti fatti, però, sembra una vittoria che non consola.