Il caso Irisbus-Iveco

Irisbus-Iveco

Il gruppo elettrogeno alimenta l’illuminazione dell’area presidiata dagli operai, che si alternano davanti allo stabilimento Irisbus di Flumeri, il quale ormai da giorni è sotto la luce dei riflettori della scena politica e mediatica. All’ingresso principale, fra i tendoni e il gazebo, la fiancata di un camion fa da sfondo alla proiezione della partita Napoli-Fiorentina, la sera di sabato 24 settembre.

Una manciata di uomini e donne, qualche ragazzino, ogni tanto un’automobile che arriva e un’altra che se ne va. C’è un gruppetto di persone che discute a due passi dal cancello della fabbrica e dal gabbiotto della sorveglianza, poi gli striscioni, reduci dalle manifestazioni dei giorni scorsi, attaccati alle sbarre. Tutto sembra testimoniare la tregua.

Nelle settimane precedenti, dopo l’annuncio della chiusura dello stabilimento da parte del Gruppo Fiat, per i lavoratori è stato un susseguirsi, imprevedibile, di eventi: l’intervento delle organizzazioni sindacali nella contrattazione, il paventato accordo con l’imprenditore molisano Massimo Di Risio, la passerella dei politici, dentro e fuori il Parlamento, la presenza massiccia a Roma, per l’appuntamento al tavolo con il Ministero dello Sviluppo Economico.

La Fiat in Irpinia ha aperto i battenti nel 1978. Per centinaia di dipendenti – circa 700 attualmente, 1800 nel periodo d’oro – e le loro famiglie è stata “mamma Fiat”, come la definisce Luigi T., 58 anni, in cassa integrazione da un anno, a due dalla pensione. Luigi non è ingrato, racconta che la Fiat gli ha dato moltissimo. Spiega che quella di Valle Ufita, oltre ad essere l’unica sede in Italia dove si producono i giganti di ferro, è anche la sola del gruppo dove si lavora senza l’alienazione della catena di montaggio, dove ciascuno è in grado di eseguire più processi invece che una sola, meccanica operazione. E tutto rispettando i ritmi dettati dalla produzione.

Luigi racconta dei primissimi tempi in azienda, quando bisognava capire come assemblare un pezzo, cosa che agli operai nessuno aveva mai spiegato. E sorride mentre mima la scena in cui lui e i colleghi di reparto girano prima in un senso, poi in un altro, il foglio con l’immagine del pezzo da montare, cercando di dare un senso a un ammasso indiscriminato di viti e bulloni.

Racconta che la Fiat ha dato loro una mensa che faceva invidia ad un ristorante, controlli medici periodici, adeguate divise aziendali, riconoscimenti al raggiungimento di una certa anzianità lavorativa, regali ai figli per Natale e al conseguimento della maturità.

Dice di essere lì non tanto per sé stesso, che in qualche modo alla pensione ci arriva, ma per i lavoratori più giovani, perché è consapevole che per le prossime generazioni una vita lavorativa soddisfacente, fatta di diritti e doveri, diventa sempre più un miraggio.

Inimmaginabile, fino a poco tempo fa, una simile evoluzione della situazione nello stabilimento Irisbus: soltanto nel mese di giugno 2011, infatti, venivano completati i lavori per rinnovare le linee produttive, dotando l’azienda di attrezzature all’avanguardia, costate circa 8 milioni di euro e pagate anche con denaro pubblico. Un investimento apparentemente immotivato se si pensa che i dati relativi alle commesse, cioè la diminuzione delle richieste dalle 717 unità del 2006 alle 145 del primo semestre 2011, non potevano che essere già noti.

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Oltre il danno, la beffa. In mancanza della definizione, da parte del governo, di un adeguato piano trasporti nazionale, che rinnovi le macchine obsolete, attualmente adoperate nelle città, con mezzi moderni, tali da abbattere l’inquinamento ed evitare le sanzioni dell’Unione europea, gli operai testimoniano che la Fiat, in passato, ha chiamato a formarsi nello stabilimento di Flumeri i colleghi della Repubblica Ceca. Qui, infatti, da oltre un decennio ha acquisito una ditta locale con la quale può comunque, in caso di chiusura dello stabilimento, concorrere alle aste.

Il dejà-vu della delocalizzazione, incubo ricorrente da quando si è scoperto che la manodopera straniera costa meno, si materializza nuovamente. Gli operai descrivono con genuino stupore la divisa dei loro colleghi stranieri, calzoncini e zoccoli al posto della tuta e degli scarponi, e si chiedono quanto possano essere garantite altrove salute e sicurezza sul luogo di lavoro.

Il caso Irisbus è un caso emblematico. Testimonia l’ennesimo episodio di incapacità dello stato ad intervenire per trattenere un settore industriale strategico. C’è da chiedersi quanti altri episodi del genere dovremo vedere, prima che si inizi davvero a fare qualcosa ottimizzando le risorse che si hanno, invece di dismetterle senza pensarci su due volte. In cambio di un risparmio rapido, ma senza visione del futuro.