Socialdemocrazia: eclissi o rilancio?

Socialdemocrazia

L’iniziativa “Socialdemocrazia: eclissi o rilancio?” organizzata dall’associazione Lavoro&Welfare, in collaborazione con Ares e con la Fondazione Ugo La Malfa, ha fornito molti spunti interessanti sul tema in esame. Argomentazioni così stimolanti da essere state riprese dai principali organi d’informazione italiani nonostante si trattasse di discussioni di stampo teorico molto spesso ben lontane dalla contingenza politica quotidiana (che tanto fa impazzire i giornalisti della cronaca politica!).

Hanno tenuto banco in primo luogo gli interventi di Pierluigi Castagnetti e Massimo D’Alema. Due interventi che a tratti hanno assunto l’affascinante fisionomia dello scontro dialettico e della battaglia delle idee, ma che in realtà assumevano allo stesso tempo dei tratti complementari capaci di trattare i numerosi aspetti dell’argomento.

Castagnetti ha contraddistinto il suo intervento evidenziando come il mondo sia radicalmente cambiato negli ultimi anni: non tanto citando, cosa che faccio spesso io, il “sorpasso” dei colletti bianchi sulle tute blu delineatosi negli anni ’80, ma i dati della popolazione mondiale, cresciuti a dismisura nel corso dell’ultimo secolo, e alcuni aspetti che sono sintomi di un cambiamento anche a livello squisitamente politico (un sondaggio secondo cui solo il 40% dei soci delle cooperative in realtà nel segreto dell’urna vota a sinistra). Non provenendo forse da quella storia ha anche ricordato alcune responsabilità oggettive delle forze politiche del socialismo, della socialdemocrazia e del laburismo europeo nei confronti del rallentamento dell’iter politico teso ad ottenere l’integrazione europea. Citando il primo, e quanto mai compianto, presidente della Bce Wim Duisenberg Castagnetti ha ricordato come pur arrivando ad una moneta comune e ad una banca centrale comunitaria oggi non esiste un governo europeo capace, se non di evitare la crisi, almeno di esser munito di strumenti diversi per cercare di arginarla. Rallentamento dell’unione politica avvenuto proprio quando i governi di centrosinistra erano praticamente al governo dappertutto nell’Europa a 15 (come dimenticare la frase di Felipe Gonzales secondo cui “noi socialisti siamo al governo dappertutto, ma non comandiamo da nessuna parte”).

Ha finito il suo intervento leggendo estratti da un’intervista del “teorico” del partito laburista nel suo nuovo corso milibandiano: in questo intervento si ricordava come la sinistra non possa cedere alla destra parole e concetti come patria e famiglia. Si accusava la sinistra italiana di essere troppo settaria, autoreferenziale e soprattutto fornita di troppi “principi” (su questo punto, apparentemente immorale, si parlerà dopo). Infine ha ricordato come in Italia, paradossalmente, le due forze politiche maggioritarie siano state quelle più retrive e culturalmente, dal punto di vista teorico, le meno adatte a favorire lo sviluppo del paese e la dinamicità delle posizioni a sinistra.

D’Alema ha iniziato il suo discorso a dire il vero, ma questa è una mera considerazione di carattere comunicativo, dicendo che anche i laburisti britannici hanno i loro problemi e che non sarebbe male, da parte loro, concentrarsi di più sulle vicende di casa propria. Un’argomentazione magari anche condivisibile che ma che rischia di celare un certo nervosismo per le argomentazioni prime espresse.

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In ogni caso l’ex premier ha concentrato il suo intervento su una visione della sinistra che in Francia definirebbero “plurale”: se infatti la socialdemocrazia come idea può essere anche superata non lo è la realtà dei movimenti e dei partiti socialisti. Del resto sono il polo alternativo, seppur in difficoltà, di tutti i sistemi partitici europei. Tra l’altro aggiunge D’Alema, a seguito della vittoria in Danimarca dei socialdemocratici e del conseguimento della maggioranza assoluta al Senato dei socialisti francesi, non è esclusa una riscossa dei movimento socialdemocratico. A maggior ragione in una fase politica in cui ci si appresta ad assistere a molte elezioni politiche in Europa.

Per D’Alema dunque alcune casacche politiche sono superate, ma devono tendere a collaborare con altre forze del centrosinistra europeo arrivando ad una pluralità di posizioni sintetizzabili nella definizione “progressista”. Del resto la terza via, sempre secondo D’Alema, ha portato avanti un atteggiamento troppo supino nei confronti del mercato ma ha avuto il grande merito di aver fatto incontrare alla socialdemocrazia classica elementi di sinistra liberale capaci di arricchire la base programmatica della sinistra europea. Dunque bisogna incorporare le conquiste della socialdemocrazia e andare avanti con altri partner e compagni di strada per una nuova sinistra capace di tornare a vincere.

Sembrano due analisi distinte, in realtà a tratti sono complementari.

Castagnetti ha senz’altro ragione nel segnalare come i socialisti abbiano sprecato una grande occasione storica, nel periodo del loro massimo splendore, nel non cogliere appieno una grande sfida politica si poneva sul progetto dell’integrazione europea. Al tempo stesso segnala cambiamenti mondiali che non possono non aver alcun effetto su gran parte della sinistra continentale. Le stesse argomentazioni del teorico del laburismo inglese hanno un loro perché, sono condivisibili ma risentono di un limite: un limite che segnalai in un pezzo per The Post Internazionale “La sinistra e la ricezione delle idee” (http://www.thepostinternazionale.it/2011/09/la-sinistra-e-il-problema-della-ricezione-delle-idee/). Se infatti i laburisti criticano il conservatorismo delle posizioni comuniste e democristiane in Italia, forse un po’ troppo stataliste e dunque repressive ai loro occhi, è anche vero che mai e poi mai occorre schematizzare troppo le differenti realtà tra paesi. E dunque come è sbagliato accusare la terza via, almeno secondo me, di essere stata troppo accondiscendente nei confronti del mercato la stessa cosa bisogna dire dell’Italia che agli occhi di Londra non può essere accusata di essere troppo statalista e “tradizionalista”, per certi versi.

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La terza via blairiana, non mi stancherò mai di ripeterlo, mirava  a conquistare il centro dello spazio politico. Un centro britannico che però è diverso da quello italiano. Non si intende infatti la presa o la conquista del voto cristiano con questo termine. Ma la conquista elettorale della middle-class, quella stessa fascia sociale molto ampia che la Thatcher e i conservatori avevano conquistato consentendogli di permanere al governo per ben 18 anni (stabilendo un’egemonia antropologica, concetto ripresa da D’Alema). Di conseguenza se c’è un problema nella terza via non è tanto nella sua idea in se, che del resto si rifà al trend economico del periodo che vive dell’onda lunga liberale se non liberista ancora in voga negli Usa dagli anni ’70, ma nel fatto che in Europa e nel continente si è cercato di adottare la stessa ricetta in contesti diversi. La terza via era uno stimolo, una sfida. Ma è quanto mai miope assumere questa sfida con le stesse modalità britanniche e non contestualizzando il tutto ad una realtà europea ben diversa da quella d’oltre Manica (da qui la dicotomia capitalismo anglosassone vs capitalismo renano). Del resto il teorico del laburismo rivendica anche la necessità, nella sinistra italiana, di avere meno principi nel senso di rifarsi di più ad un sano pragmatismo. Io sarei d’accordo, soprattutto a seguito della fine delle ideologie post-1989. Ma il pragmatismo di tipo inglese mai potrà essere comparabile con una forma analoga di pragmatismo all’italiana e all’europea. Insomma, occorre senz’altro più pragmatismo nella politica italiana. Ma non scordiamoci che dalla presa della Bastiglia in poi qui nel Continente molto spesso si tende a ragionare per “alte idealità”.

L’intervento di D’Alema invece contrassegna più il versante tattico della stessa questione. Senz’altro i socialisti non potranno che essere protagonisti, insieme ad altri soggetti, di una potenziale riscossa della sinistra continentale. Il limite del discorso casomai sta nel non considerare che quella riscossa della sinistra in Europa, elezioni danesi a parte, potrebbe pur non delinearsi. E’ emerso troppo ottimismo nei confronti delle complesse presidenziali francesi del 2012. A tratti si è sottovalutato l’influenza che il secondo turno ha sull’elettorato d’Oltralpe. Insomma: non si può risolvere la vicenda dicendo “se i socialisti andranno al ballottaggio contro Sarkozy dovranno stringere patti e accordi con altri partner politici”. Solitamente, soprattutto per quanto riguarda il centro, nessun leader politico in Francia è cosi presuntuoso, o stupido politicamente, da schierarsi a spada tratto su uno dei due concorrenti (il caso Bayrou nel 2007 insegna). In Francia si ragione ancora in ottica giscardiana, e nessuno ha il diritto di avere il monopolio del cuore degli elettori!

Del resto la stessa vittoria dei socialdemocratici danesi è considerata da qualche osservatore come una vittoria della sinistra più capace di smarcarsi da quella tradizione classica della socialdemocrazia.

In ogni caso, è questo il succo dell’evento, entrambi gli esponenti politici hanno posto la necessità di una nuova fase e di un superamento che però non escluda l’accorpamento delle conquiste della migliore tradizione della sinistra europea. Come spesso accade in politica, e anche nella vita, presumibilmente la verità sta nel mezzo. E la ricetta più convincente potrebbe essere una versione ben calibrata di questi due interventi apparentemente opposti ma in realtà per certi versi complementari.