Diplomazia iraniana al bivio: riserve dell’occidente e ostilità dei ribelli

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Diplomazia iraniana al bivio: riserve dell’occidente e ostilità dei ribelli

Gli ampi spazi di manovra della Russia

È sull’East River Coast di New York che si è da poco aperta la sessantottesima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: i Presidenti e Capi di Governo di 193 Stati membri hanno dato l’avvio ad una prima settimana di incontri, cui faranno seguito proposte ed iniziative su oltre centocinquanta questioni di scottante attualità. Le tematiche sono le più eterogenee, spaziando dai diritti delle persone disabili, al dialogo sulle immigrazioni internazionali, allo sviluppo, per passare attraverso le politiche del disarmo. Tuttavia, il macigno che rotola fatalmente ai piedi di un’ossidata diplomazia internazionale è ancora la crisi siriana. Gli scontri che contrappongono i lealisti alla costellazione degli insorti hanno causato in due anni e mezzo la morte di oltre centomila persone, cui si aggiungono all’incirca due milioni di rifugiati. Poi l’impiego di armi chimiche su vasta scala e l’impeto interventista dell’Occidente sono stati il riflesso primario e secondario di una guerra civile che dal 2011 consuma il paese mediorientale.

Nell’ultimo mese, la Casa Bianca ha sollecitato l’appoggio europeo per un’operazione militare in Siria; il Cremlino ha invece stigmatizzato una potenziale soluzione bellica, anche a fronte della commissione di crimini contro l’umanità. Quelle appena trascorse sono state settimane di sospensione, incertezza, di pezzi di verità non assolute, ma tuttora in attesa di conferma.

Stando alle dichiarazioni del vice Ministro degli Esteri russo S. Ryabkov, Damasco avrebbe consegnato alla delegazione del Cremlino alcune prove che dovrebbero dimostrare che frange dei ribelli estremisti avrebbero accesso alle armi chimiche e che le avrebbero utilizzate nel conflitto. Una politica dunque ispirata alla moderazione fino a che non si avranno prove concrete su chi abbia inferto l’attacco chimico del 21 Agosto scorso.

In fondo, potrebbe leggersi come un incentivo per l’elaborazione di una nuova roadmap per l’equilibrio dei poteri a livello mondiale.

Il debutto tra i signori della diplomazia

Il Segretario di Stato Usa, J. Kerry invita il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ad adottare nei prossimi giorni una risoluzione che costringa la Siria a rispettare il piano per smantellare il suo arsenale chimico. I cinque membri permanenti si devono preparare ad agire la prossima settimana, ed è indispensabile che la comunità internazionale parli forte e chiaro: questa la sintesi del discorso tenuto dal Segretario di Stato.

È certo che per Damasco è giunto il momento di effettuare dei fondamentali passi in avanti per rendere inaccessibili e smaltire tutte le armi chimiche presenti sul suolo siriano: la presa in consegna internazionale dell’arsenale chimico a disposizione dell’esercito del regime è una condizione necessaria per un concreto processo di pace. Tuttavia – in un continuo rimbalzo di ultimatum da un lato e perplessità dall’altro –  il Presidente Assad ha espresso seri dubbi sugli ingenti costi che comporterebbe la fase di eliminazione degli armamenti.

A prescindere da quali siano le ultime tendenze che  i due giganti del Consiglio di Sicurezza si dichiarano pronti ad assumere in materia di politica estera, c’è chi desidera conquistare la ribalta internazionale per mezzo di (auto)decantate capacità di mediazione. È il nuovo Presidente iraniano H. Rohani, che – proclamando conclusa l’era delle minacce e della repressione – anticipa il suo primo appuntamento al Palazzo di Vetro con un’ eloquenza diplomatica che enfatizza il ruolo del dialogo costruttivo tra le Nazioni.

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Il richiamo alla responsabilità e alla cooperazione tra Stati non è che l’eco di parole già spese dai vertici della diplomazia russa, che sorveglia costantemente la fragilità di cristallo della Siria. Tuttavia, l’appello ad un duraturo processo di pace resta affidato a parole svuotate della propria essenza, sciupate da una scarsa convinzione e da critiche forse troppo amare verso la politica statunitense degli ultimi dodici anni. Una strategia traditrice – a giudizio di Rohani – un inganno che trae alimento dalla magra necessità di difendere la sicurezza di alcuni Paesi, accettando il rischio che molti altri siano posti in pericolo. Non a caso, gli interventi in Afghanistan e in Iraq hanno fatto emergere grandi interrogativi irrisolti.

Impressioni non certo positive sull’apertura diplomatica iraniana si sono generate già in Siria: la coalizione dei ribelli non ha mancato di sottolineare espressamente la scarsa serietà e l’inattendibilità politica della mediazione iraniana.

Una diplomazia in via sperimentale

Eletto il 14 Giugno scorso, H. Rohani si è presentato come il moderato che ha raccolto poco più del 50% del consenso dell’elettorato iraniano e, fin da subito, ha mostrato apertura nei confronti dell’Occidente. Davanti ad un Governo che esibisce tolleranza e dialogo, la Casa Bianca ha rinnovato la disponibilità a collaborazioni bilaterali che trovino fondamento nella reale intenzione di Teheran a rinunciare ad un programma di armamento nucleare.

A ribadire la fermezza della posizione statunitense tanto da risolvere finalmente l’annosa questione del nucleare in Iran è stato il portavoce della Casa Bianca, J. Carney.

Ad ogni modo, prima di acclamare un’inversione di rotta della Repubblica Islamica sarebbe preferibile prestare più attenzione al vento che soffia verso Washington e l’Europa. Non è un caso che la potenziale riabilitazione dell’Iran post Ahmadinejād inciampi su malferme dichiarazioni, che potrebbero provocare una scomposizione delle aspettative.

Primo tra tutti, si pone il problema dell’arricchimento dell’uranio – asseritamente assoggettato a fini pacifici – ma che potrebbe riconnettersi pericolosamente all’annunciata svolta del programma nucleare iraniano. Svolta che sebbene non ancora esplicitata– rassicurano i portavoce iraniani – può già considerarsi in un’accezione positiva.

In secondo luogo, una sagoma diplomatica meno raffinata è stata impiegata nel definire i rapporti di vicinato con Israele, accusato di ingiustizie nei confronti di tutti i popoli mediorientali e di portare instabilità all’intera regione con le sue tendenze guerrafondaie. E sebbene Rohani non abbia negato l’Olocausto come il suo predecessore, non ha certo risparmiato l’epiteto di usurpatore allo Stato ebraico.

A questo punto, due sono le interpretazioni consentite.

I toni decisi possono talvolta dare forma concreta a quell’astratta   libertà di espressione a tutt’oggi agognata dai cittadini iraniani; o – al contrario –  l’auspicato ricorso al dialogo può appassire in un attimo, se continua ad essere gravato dal peso di  una consolidata cortina di mera propaganda internazionale.

Luttine Ilenia Buioni