Il Jobs Act forse funziona, ma nel diminuire il costo del lavoro

jobs act , istogrammi sul costo del lavoro

Il Jobs Act forse funziona, ma nel diminuire il costo del lavoro

Ci sono cose che i politici non dicono, si sa, e secondi fini che le leggi vogliono raggiungere ma che non si possono dichiarare ai cittadini, soprattutto da parte di un governo che alla popolarità tiene moltissimo e che in base a questa indirizza le scelte della propria attività legislativa.

Jobs Act, l’obiettivo non era solo l’abolizione dell’art 18

E’ il caso del Jobs Act. Naturalmente quasi tutto il dibattito era stato incentrato sull’abolizione dell’articolo 18, che strategicamente il governo Renzi ha riservato solo ai nuovi assunti, per non andare a uno sconto frontale con la CGIL, notoriamente più attenta alle richieste e alle lamentele dei già assunti. Oppure sul suo funzionamento, finora scarso.

In realtà vi è un elemento di cui poco si è sempre parlato in Italia, a differenza che nel resto d’Europa, e che però è tra le determinanti fondamentali quando si tratta di occupazione, il costo del lavoro, in particolare il livello degli stipendi.

Sì perchè il non detto, almeno nei media, ma non nei circoli economici, è questo, in Italia negli ultimi 15-20 anni il costo del lavoro e gli stipendi sono saliti più che in tutta Europa, troppo soprattutto se ci paragoniamo agli altri Paesi più in crisi.

E il Jobs Act anche a questo puntava, attraverso il minore potere contrattuale degli assunti, e le nuove regole per esempio sul demansionamento, a una diminuzione del costo del lavoro per recuperare quella competitività e quindi quella produttività, che è in fondo il grande problema dell’Italia negli ultimi due decenni di mancata crescita, come lamenta anche l’ultimo report del Centro Studi di Confindustra

Qualcosa sta cambiando ora invece, i dati degli ultimi trimestri mostrano chiaramente che ormai l’Italia è tra i pochi Paesi in cui il costo del lavoro nominale è calato nel III trimestre del 2015:

E’ un processo iniziato da qualche tempo in Europa, e l’Italia arriva, come al solito, in ritardo. Dapprima era stata la Germania a servirsi della moderazione salariale per migliorare la propria competitività rispetto al resto della UE, e poi la Spagna, con crolli anche del 3,5% del costo del lavoro accompagnati ad una austerità durissima di cui nel Belpaese non si è vista neanche l’ombra. Ora tuttavia sembra siamo noi, complice una inflazione a zero, a passare per questa fase.

 

Jobs Act, costo del lavoro in Italia in calo più che in Germania

E infatti se fotografiamo la situazione paragonandola ai livelli del 2012, negli ultimi 3 anni il costo del lavoro risulta diminuito in Italia più che in quasi tutto il resto d’Europa, Germania compresa

 

 

D’altronde, per dirla in modo rozzo ma sensato, se la torta non cresce, o cresce dello zero virgola, per avere più fette si devono fare più piccole.

Detta in termini economici, se la crescita italiana quest’anno non andrà oltre uno 0,7% e il prossimo anno come sempre è tutta un’incognita, la proporzione di quanti lavorano in Italia è ai livelli minimi in Europa, e l’urgenza è quella di aumentare il tasso d’occupazione, allora non sarà possibile avere la botte piena e la moglie ubriaca, ossia più lavoratori e stipendi più alti, ma sarà indispensabile invece un calo del costo del lavoro per rendere possibile almeno l’aumento di chi ha un contratto.

 

Un lavoro che scarseggia, se la percentuale dei posti vacanti in Italia è da molto ai minimi europei, appena lo 0,6% dei posti, meno di un quarto che in Germania.

 

 

La domanda di lavoro da parte delle aziende è quindi bassissima, come i margini operativi e la produttività.

 

Davanti a questi dati anche per i sindacati le strade sono aperte: o il modello italiano degli anni ‘80, con continui aumenti salariali ottenuti per chi già aveva un lavoro, mentre nel frattempo l’occupazione calava (anche per pre-pensionamenti, ricordiamolo), o quello tedesco degli anni 2000, con cali di costo del lavoro, e quel recupero di produttività ed occupazione che permetterà alla Germania di non soffrire la crisi e di affermarsi come economia più forte d’Europa.