Due chiacchiere con un tizio greco di 2400 anni fa

Due chiacchiere con un tizio greco di 2400 anni fa

Scartabellando nella vecchia biblioteca di famiglia ho trovato una storiella curiosa, che mi ha subito appassionato perché eterna. È stata scritta oltre 2400 anni fa, nel 425 a.C., da un anonimo ateniese chiamato “il vecchio oligarca” in un libretto riguardante la politica di allora chiamato Costituzione degli ateniesi. È un dialogo tra due tizi che hanno idee assai diverse sulla democrazia, e quello più loquace ha argomenti familiari.

Dice che qualunque paese governato dai “migliori”, o più potenti, non ha democrazia. Anzi. Quando governano i migliori le ingiustizie sono al minimo e si tende al bene; viceversa, in quelli governati dal popolo «c’è il massimo dell’ignoranza, di disordine e di malvagità. La povertà infatti spinge all’ignominia, e altrettanto fanno la mancanza di educazione e la rozzezza, che in alcuni casi nasce dall’indigenza.»

Stringi stringi, il Vecchio oligarca – l’aggettivo credo sia importante – dice che la democrazia rende inefficiente ogni apparato amministrativo, corrompe quello giudiziario e alla fine fa vivere bene i banditi e male i bravi cittadini. La colpa di tutto questo non è il popolo, che giustamente cerca di fare il bene per sé stesso, bensì di nobili e saggi che accettano di vivere tra decadenza e degrado perché schiacciati dal loro senso di colpa di essere ricchi, privilegiati e colti.

È fantastico: questo pezzo potrebbe essere stato scritto oggi e ancora farebbe girare le scatole a quelli che pagano le tasse, risparmiano per comprare lo scaldabagno nuovo e vedono Corona con 20 milioni nel soffitto idolatrato dalle casalinghe.

Del resto quella della decadenza è un’idea diffusa.

Un popolo nasce, prospera conquistando e sottomettendo gli altri, li domina con la forza e raggiunge eccellenze in ogni campo, da quello artistico a quello economico. Poi i giovani per spirito di ribellione si oppongono, vanno a vedere le sofferenze degli schiavi e di chi ha reso possibile il loro benessere, si sentono in colpa e si inteneriscono, disintegrando in pochissimo tempo imperi e potenze considerate enormi.

Questo fa sprofondare il paese in condizioni di degrado via via peggiore in cui il solo anestetico è una versione all’acqua di rose del passato in cui schiavitù, abusi e omicidi vengono dimenticati mentre grandezza, bellezza e agiatezza diventano protagonisti. Si procede a non fare nulla e a cullarsi nei ricordi finché finisce il pane; a quel punto c’è una generale carneficina e si ricomincia (ne ho parlato già qui e qui).

E non c’è modo di fermare questo ciclo.

Si può parlare di leader e di ideologie, filosofia ed economia, ma siamo sempre scimmie che trovano giustificazioni e termini nuovi per prevalere sugli altri beta del branco e avere più femmine, fare più figli e perpetrare il nostro codice genetico prima di morire. Il fatto è che nella nostra specie c’è una cosa che manca alle altre, e al discorso – seppur carismatico – del buon Vecchio oligarca.

È difficile metterlo in parole; quella più simile è sacrificio.

Quasi tutti gli animali sacrificano la loro vita per la loro prole o la loro colonia, molti meno lo farebbero per animali di specie diverse, anche se ci sono casi documentati in cui è successo. Quello che ci distingue in democrazia o dittatura è il nostro sacrificio animale; siamo bestie così forti da riuscire ad anteporre la nostra etica a un istinto con 100,000 anni alle spalle. L’apice della nostra specie si vede quando aiutiamo qualcuno senza averne nulla in cambio, quando perdoniamo un nemico, quando invece di punire correggiamo.

Non è bontà, è sacrificio.

Alla fine, forse siamo uomini quando facciamo cose che oggi sono considerate da deboli. Mi chiedo perché.