Davvero “il Pd non fa opposizione”?

Provate a prendervi un caffè in un bar qualunque della nostra penisola. Provate a farvi un giro su uno dei tanti luoghi di aggregazione sociale sul web. Provate, infine, a fare un discorso più o meno articolato che contenga le parole “Partito Democratico” (o “Bersani”, a scelta) e “opposizione”. Ora notate le reazioni, e scoprirete che la maggioranza dei vostri ipotetici interlocutori si mostrerà convinta nell’affermare che Bersani e il suo partito non fanno opposizione.

 

La tesi sembrerebbe condivisibile e, di fatto, lo è. Per la sua forza quasi tautologica è diventata uno dei tanti luoghi comuni e in quanto tale merita due considerazioni. La prima è che come tutte le opinioni comuni essa non è necessariamente vera, anzi. La seconda è l’invito a farci riflettere sui fattori che hanno contribuito ad alimentare questa credenza.

 

Per farlo, lasciamo per un attimo Bersani e soffermiamoci sugli altri leader politici del centro sinistra o quelli che comunque gli gravitano attorno. Chi più, chi meno, ognuno di loro ha dei tratti elocutori distintivi con cui riesce ad “ammaliare” l’elettorato. La passione, la forza comunicativa, il linguaggio estremo e diretto pagano molto nel modo di fare politica attuale, e portano un bel po’ di voti. La conclusione è che nel pastone delle dichiarazioni politiche vale molto più un «vaffanculo» di Grillo e un «piduista» di Di Pietro che la calma piatta del Pd.

 

Ma è davvero solo in questo modo che si fa opposizione? La domanda è volutamente retorica. Se pagassero solo urla e veracità, i voti dei democratici si vedrebbero ridotti al lumicino, poiché proprio la mancanza di carisma dei segretari piddini ha contribuito a far migrare molti elettori verso altri lidi.

 

L’opposizione non è una grandezza fisica, eppure esiste un luogo dove poterla misurare: il Parlamento. È qui che il Partito democratico si prende la sua rivincita contro le malelingue.

 

Per contrastare la vox populi prendiamo in esame due dati, facilmente consultabili sul sito della Camera dei Deputati. Il primo è quello delle percentuali di presenza in aula, in cui il Pd stravince tra le forze d’opposizione con un dato di presenze totali (in cui si conteggiano anche le missioni dei deputati) che si attesta all’84,49%, seguito dal 78,31% dell’Idv, il 76,35% dell’Udc e il 74,98% del gruppo misto.


 

Il dato delle presenze, tuttavia, non è per forza sinonimo di fervida attività dei gruppi parlamentari. Per tale motivo ricorreremo a un ulteriore dato, molto più indicativo: la presenza dei gruppi parlamentari alle votazioni. Qui i deputati del Pd fanno letteralmente la differenza, dimostrandosi i più attivi non solo delle opposizioni, ma di tutto il Parlamento, superando di misura anche l’attivissimo gruppo leghista.

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La percentuale di presenze democratiche alle votazioni sfiora quota 82%; a seguire troviamo la Lega Nord (81,19%), Futuro e Libertà (76,32%), PDL (73,86%) e, fanalini di coda – se si esclude il gruppo misto che non arriva al 60% – l’Udc (72,60%) e l’Idv (72,25%).

 

Quelli che sembrano solo freddi numeri in realtà sono la condicio sine qua non che ha permesso al Pd e a tutta l’opposizione di battere il governo  nell’ultimo anno non una, non due, ma ben cinquantatré volte; un dato che dovrebbe fare scalpore, se solo si pensa alla maggioranza schiacciante di cui ha disposto Berlusconi finora; un dato, tuttavia, che resta impigliato nelle maglie dell’informazione extraparlamentare, a cui fa comodo che la politica sia diventata un calderone aleatorio, lontano dalla pragmaticità e inconfutabilità del voto in Parlamento.

Giuseppe Ceglia