La crisi accelera e la Seconda Repubblica traballa

Berlusconi

Nell’arco di due giorni, i finiani e l’Mpa del governatore siciliano Lombardo hanno abbandonato definitivamente il governo e la linea Berlusconi non è cambiata, nemmeno dopo il vertice ad Arcore con lo stato maggiore della Lega nel corso del quale il leader del Carroccio, Umberto Bossi, ha provato a convincere in extremis il Cavaliere a percorrere la strada di una crisi pilotata come chiesto da Fini. Quella che pare sia stata la conclusione dell’incontro è un “patto di ferro” che esclude l’ipotesi di un Berlusconi bis e, in caso di un voto di sfiducia, chiede elezioni anticipate per la sola Camera dei deputati. Un aut aut insomma: o fiducia o ritorno alle  urne.

 

Entrambe le ipotesi sono tra loro inscindibilmente collegate in quanto Costituzione vuole che, in caso di sfiducia al Governo, questo sia obbligato giuridicamente a rassegnare le dimissioni; ed entrambe appaiono viziate da serie perplessità. Non si comprende appieno quanto sia concreta e reale la possibilità di un voto di sfiducia chiesto prima in una Camera e poi nell’altra a discrezione del Presidente del Consiglio e, tanto meno, quanto costui goda di una prerogativa istituzionale nella decisione relativa allo scioglimento delle Camere. A leggere la lettera del testo costituzionale (art. 94 Cost.) in merito al primo punto non si rileva alcun criterio di prevalenza eccettuato il principio secondo cui il Governo deve avere la fiducia di entrambe le Camere e poco importa in quale ordine tra le due: piuttosto si tratta di scelte aventi un significato politico di immagine.

 

Ciò che invece pare evidente ai più, ma non ai berluscones, è che nell’art. 88Cost. (quello in cui si attribuisce al Capo dello Stato il potere di scioglimento delle Camere) copre anche casi molto complessi, nei quali il Presidente della Repubblica, quale organo di garanzia del sistema democratico costituzionale nel suo insieme, è tenuto a partecipare sostanzialmente e non solo sul piano formale. Sciogliere una Camera o una sola di esse, come pure previsto dall’art. 88, è una delle più importanti prerogative presidenziali in quanto conduce allo scioglimento anticipato delle assemblee parlamentari per consentire il superamento di un dannoso, ed altrimenti insuperabile, stato di disfunzionalità politica o istituzionale. Stando a quanto desumibile dai lavori costituenti, la ratio della disciplina del potere di scioglimento anticipato è quella di introdurre uno strumento volto a contrastare i possibili eccessi del sistema parlamentare: la prassi di applicazione offre una conferma di ciò in quanto gli scioglimenti del Senato del 1953, 1958 e 1963 erano stati finalizzati a far svolgere contemporaneamente  le elezioni per il rinnovo delle due Camere e erano dovuti all’esistenza di significative difficoltà politiche, mentre nel 1994 ciò è stato determinato dal cambiamento radicale del sistema elettorale e nel 1992 e nel 2001 si è trattato di motivi di opportunità politica largamente condivisi.

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A fronte degli odierni aspri contrasti, ancor di più si rende evidente la grande delicatezza che presenta una valutazione dei presupposti che possono legittimare l’interruzione del mandato elettorale. Non a caso, in tal senso la Costituzione prevede che il potere di scioglimento anticipato possa essere esercitato solo dopo aver sentito il parere dei Presidenti delle Camere, i quali, pur non esprimendo evidentemente un parere vincolante, possono autorevolmente rappresentare al Presidente della Repubblica le opinioni prevalenti nelle rispettive assemblee e all’interno dei gruppi parlamentari che vi operano. Alla luce di ciò si spiegano, da un lato, i richiami dal Colle rispetto a quell’“entrata a gamba tesa” del Governo che, probabilmente stizzito dall’evoluzione delle cose di questi ultimi giorni, aveva invocato lo scioglimento in caso di mancata fiducia, dall’altro l’incontro di martedì pomeriggio tra il Presidente della Repubblica e i Presidenti di assemblea, Fini e Schifani. I passi successivi saranno primariamente quelli di definire le scadenze parlamentari inderogabili e assicurare quindi il via libera alla legge di stabilità e bilancio: solo dopo si affronterà la crisi.

Infine, scioglimenti ad personam a parte, la crisi accelera e la soluzione non è dietro l’angolo. Dato certo è l’emergenza democratica e la degenerazione di un sistema che nasce anche dalla legge elettorale definita porcellum. Riforme istituzionali coerenti e di ampio respiro appaiono oggi più che mai necessarie ed urgenti: tra ipotesi di ritorno al proporzionale e nascita di un terzo polo, la crisi del Governo segna una battuta d’arresto del bipolarismo e, chissà, l’apertura di nuovi scenari da Terza Repubblica.