Fiorito? E’ una conseguenza della crisi dei partiti

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Il caso di Franco Fiorito ha colpito molto l’opinione pubblica. Il caso, pur simile ad altri avvenuti in passato, colpisce per alcune particolarità. La prima: Fiorito racconta di essere stato tra la folla che, all’apice dello scandalo di Tangentopoli, tirò le monetine a Bettino Craxi davanti all’entrata dell’hotel Raphael. E’ quindi, simbolicamente, come se un cerchio si chiudesse. Chi all’epoca denunciava i corrotti, si faceva portabandiera di un rinnovamento all’insegna di una presunta onestà della “gente” e della “società civile”, oggi si ritrova dall’altra parte a fare come e peggio dei politici tanto odiati.
La seconda particolarità riguarda il fatto che Fiorito ottiene moltissime preferenze alle elezioni. Quindi nonostante sia un politico che, secondo la vulgata, è eletto dal “popolo” e non dalle segreterie di partito, riesce a dare scandalosa testimonianza di sé. Come si diceva per Berlusconi e per Craxi prima, sembra che la pur ben nota discutibilità dei comportamenti di certi personaggi non trattenga la gente dal dare il proprio voto.
La situazione ricorda un divertente spezzone tratto dal film “Signore e signori, buonanotte” (http://www.youtube.com/watch?v=1KCC5xNNJqg&feature=player_embedded) nel quale un politico, interrogato sulle indagini in corso riguardo a suoi comportamenti illeciti dichiara candidamente di non volersi dimettere per poter più comodamente intralciare il corso della giustizia. Al giornalista allibito dalle sue dichiarazioni argomenta ulteriormente di considerare tale gesto come un suo “dovere precipuo” verso l’elettorato che gli ha dato il voto per ottenere da lui “posti, licenze, permessi, appalti”, per essere spalleggiato “in evasioni fiscali, in amministrazioni di fondi neri, crolli di dighe mal costruite, scandali, ricatti, contrabbando di valuta”. Infine conclude dicendo: “l’elettorato vede in me un prevaricatore. Se invece voleva scegliere un uomo onesto, probo e per bene, ma che dava il voto a me?”.

Questa scena, pur nella sua paradossalità, ritrae una certa visione diffusa delle cose italiche. Si tratta peraltro di un’interpretazione che ha una lunga storia. Già Piero Gobetti scriveva che il fascismo, lungi dal poter essere considerato, come pensava Benedetto Croce, come una “malattia morale”, come qualcosa di temporaneo, era da considerarsi invece come “autobiografia della nazione”, come espressione dell’essenza più intima del popolo italiano.

Se questa interpretazione è forse eccessiva e sopratutto può aprire la strada a pericolosi atteggiamenti di superiorità morale e a tendenze elitarie, di certo rivela la presenza di un problema. Se infatti da un lato la democrazia prevede che in ultima istanza debba essere il popolo a decidere, dall’altro questi episodi e in generale la storia degli ultimi trent’anni dimostrano quanto i risultati possano essere spesso deludenti.

Ma esiste un organismo che, secondo la teoria, deve incaricarsi di mediare tra l’elettorato e il governo, di selezionare la classe dirigente, di incanalare il desiderio di partecipazione politica nelle forme democratiche, di formare i militanti alla comprensione delle problematiche di un mondo complesso: il partito politico.

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Quando si criticano “i partiti” in realtà si critica la degenerazione dei partiti, il loro essere diventati in alcuni casi e per molti aspetti dei comitati d’interesse, il fatto che essi non assolvano più a una funzione di selezione e di formazione del personale politico, il loro isolamento e la loro incapacità di convogliare il desiderio di partecipazione delle persone. Ma il partito politico in origine, nei primi decenni della Prima Repubblica, era qualcosa di molto diverso da ciò che è ora.

Chi voleva fare strada dentro un partito era quantomeno obbligato a studiare e a leggere moltissimo, ad avere le necessarie conoscenze di storia, giurisprudenza, economia, filosofia, geopolitica. I partiti erano una “scuola vivente” per militanti, quadri e dirigenti. Si entrava in un partito portando le proprie rivendicazioni, ma al contempo imparando progressivamente a tenere conto, nel proprio modo di pensare, dell’interesse generale. Questa funzione di “mediazione” dei partiti è ciò che progressivamente è andato perso nel corso degli anni Ottanta e poi ancora di più nella cosiddetta Seconda Repubblica.

Naturalmente esistono delle cause storiche per cui questo avvenne. Quando la società fordista, nella quale i Partiti erano nati e sulla base della quale si erano strutturati, venne meno, questo gettò le organizzazioni politiche in una profonda crisi. Ma questa crisi assunse forme diverse nei vari paesi, ci fu chi seppe adattarsi meglio o peggio, e determinare diverse evoluzioni sociali (basti pensare al modello scandinavo contrapposto a quello anglosassone).

Ora la grande crisi che viviamo ci fornisce l’occasione per ripensare a questo passato guardando al futuro. Inevitabilmente la crisi genererà ovunque una nuova domanda di politica. Il sentire collettivo va verso un’evoluzione che dia maggior peso alle questioni sociali rispetto all’individualismo che abbiamo conosciuto nell’ultimo trentennio. Questa condizione storica può costituire una grande occasione per un rinnovamento della funzione dei partiti, per un recupero della loro funzione originaria di elemento chiave della democrazia.

Ma è chiaro che questo potrà avvenire solo attraverso un profondissimo rinnovamento. Se da un lato va recuperato dal passato il concetto di partito, la sua funzione, le forme della partecipazione dovranno essere profondamente adeguate al presente. Bisogna però superare l’idea di una contrapposizione tra forme “nuove” (come Internet) e forme vecchie (la struttura tradizionale di partito, con le sezioni e “l’apparato”). Solo un’integrazione virtuosa dei due elementi potrà rendere i partiti nuovamente efficaci.

Naturalmente se si guarda alla realtà, questa sembra notevolmente lontana da queste evoluzioni. Ma il ritorno alla politica passa anche per il coraggio di proporre visioni ardite, di offrire una prospettiva, di muovere dalle idee. La politica, nel senso alto della parola, non è l’amministrazione dell’esistente, ma la sua trasformazione in base a un’idea di società.

Se pensiamo a quanto la crisi, dal 2007 ad oggi abbia già trasformato la società, ci rendiamo conto di come abbiamo a che fare con processi in rapidissima evoluzione, che possono cambiare le cose e creare nuovi soggetti politici. Per quanto riguarda la generazione che si sta formando in questo momento il sentire nei confronti della politica può cambiare molto rapidamente rispetto alla sistematica svalutazione che ne è stata fatta negli ultimi vent’anni. Una nuova stagione di impegno, di partecipazione potrebbe essere alle porte. Questo sarà il più profondo fattore di rinnovamento.