Lukashenko contro Putin, sulle privatizzazioni spunta una tangente

Gli instabili equilibri dello scacchiere post-sovietico sono nuovamente in subbuglio. La recente contesa, accentuatasi nelle ultime settimane, ha come protagonisti Mosca e Minsk. Il frame è la resistenza opposta dall’entourage governativa bielorussa ai rapaci e bramosi interessi economici promossi dagli oligarchi russi. La causa è il perpetrato diniego, rivendicato dalla classe dirigente bielorussa, unico esemplare nello spazio post-sovietico, ad intraprendere i processi di privatizzazione degli assets dell’economia del paese. Il nodo del dibattere, infine, Belaruskali, una delle più importanti compagnie internazionali nella produzione di fertilizzanti minerali (potassa).

I suoi stabilimenti, miniere e impianti di raffinazione, sono situati nella zona salina di Soligorsk, cittadina nella regione di Minsk. L’azienda, istituita nel 1949, ha subito nel corso dei decenni plurimi ampliamenti sino ad assumere l’odierna struttura di impresa leader del settore. L’unica costante, perpetrata negli anni, è l’assetto proprietario. Patrimonio esclusivo dello Stato. Tuttavia, i servizi di esportazione, sono stati esternalizzati, nel Settembre 2006, alla “Belarusian Potash Company”, nel cui azionariato siedono la stessa Belaruskali (50%), Uralkali (45%) e Belarusian Railways (5%). Proprio qui nasce la ragione del contendere. Uralkali, impresa russa con sede a Berezniki, ha infatti ripetutamente manifestato la propria volontà di acquisire l’azienda bielorussa, divenendo così top-player del mercato. Nell’azionariato di Uralkali, detenuto dagli oligarchi russi Galtchev, Nesis, Mutsoev e Skurov, siede soprattutto, con una quota di maggioranza (18%), Sulejman Kerimov, rappresentante della Repubblica autonoma del Daghestan nella camera alta del Parlamento (Consiglio Federale Russo) e oligarca in ascesa nelle grazie del Cremlino. Il progetto di Kerimov, azionista di Uralkali dal 2010, sarebbe proseguire le mire espansionistiche aziendali, acquisendo, dopo Sil’vinit (seconda azienda russa del settore), anche Belaruskali.

Lukashenko, in estate, pur ritenendo incedibile la compagnia, aveva comunicato ai possibili investitori il suo prezzo di vendita: $30-32 mld. Il Cremlino, delegato degli interessi dei suoi oligarchi, si era affrettato ad evidenziare la sproporzione della cifra, invitando le autorità di Minsk a ridurre le pretese. Il presidente bielorusso, fermo sulle sue posizioni, di tutta risposta, ha convocato lo scorso 16 ottobre una conferenza stampa in cui ha denunciato il tentativo di Mosca di ottenere un prezzo d’acquisto vantaggioso ($10 mld) in cambio di una tangente ($5 mld) di cui sarebbe stato diretto beneficiario. Sostenendo inoltre, in un successivo intervento pubblico, la presa di posizione di Minsk, disponibile a concedere agli investitori partecipazioni del 15-20%, ma rimarcando il suo ruolo di monopolistico controllo.

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Tra il dire e il fare di Minsk c’è però di mezzo, ancora una volta, Mosca. L’accordo siglato nell’estate 2011 (Anti-crisis Fund), guidato dalla Eurasian Development Bank e volto a rinsavire la malconcia economia bielorussa, ha infatti visto barattare Minsk, in cambio dei capitali giunti in patria, una privatizzazione degli assets del paese pari a 7.5 mld di dollari in tre anni. Se nel 2011, le autorità bielorusse, sono riuscite ad adempiere agli oneri pattuiti vendendo Beltransgaz, la sua rete di gasdotti, a Gazprom, quest’anno ancora non hanno annunciato le proprie strategie al fine di garantire la disposta quota di privatizzazioni annuali ($2.5 mld). Nonostante le ripetute dichiarazioni governative, alla luce dei fatti, l’indiziata numero uno sembra quindi proprio essere Belaruskali, considerando anche il peso del Cremlino sia nell’Anti-crisis Fund (finanziato per il 75% da Mosca) sia nel suo Consiglio (75% dei voti).

Minsk ha quindi intrapreso un disperato tentativo. Ulteriormente indebolita dalla plurime sanzioni imposte alle sue aziende dall’Unione Europea, e vogliosa di imbattersi in un regime fiscale più tenero, l’élite bielorussa ha deciso di lasciare svernare in patria la prossima defunta “Belarusian Potash Company”, azienda partecipata da Belaruskali e Uralkali, occupantesi della rete distributiva, creando in territorio geo-politicamente neutro, la Svizzera, una nuova compagnia, Soyutzkali, volta a replicare il business della distribuzione-esportazione. L’azionariato, anch’esso replicato, sarà diviso in eque parti (50%) tra la stessa Soyutzkali e Uralkali, nonostante il tentativo intrapreso dal Cremlino al fine di ottenere un assetto azionario più favorevole ai suoi oligarchi. Inoltre, diversi investitori internazionali si sono proposti come possibili acquirenti quote azionarie in Belaruskali. Il governo indiano, il governo kazako e il governo cinese hanno, in rapida successione, avanzato le loro intenzioni di investire nel colosso dei fertilizzanti. La gara, a dispetto delle salde posizioni di Lukashenko, è aperta. In palio non c’è solo l’acquisto di una redditizia azienda statale ma il riordino dell’assetto dello Stato bielorusso. Nonostante l’ingresso di ingenti capitali, a cui le privatizzazioni condurrebbero, Lukashenko conosce infatti la vera portata dell’entrata di investitori stranieri nel mercato del Paese: la fine del “socialismo di mercato” e la cessione di potere ad influenze estere. La decisione di posporre l’agognato cambiamento deriva inoltre dalla consapevolezza propria della classe dirigente bielorussa riguardo i profili dei futuri possibili acquirenti. Secondo stime recenti, in caso di privatizzazioni, l’80% del patrimonio nazionale verrebbe infatti acquisito dagli oligarchi del Cremlino, generando una reconquista russa non avente diretti abiti politici ma eleganti e sobrie maschere economiche, di mercato. Gli europei e gli americani, considerato l’assetto governativo bielorusso e la sua arbitraria interpretazione della legge, stentano ad investire. L’Unione Europea economicamente sanziona il mancato rispetto di pratiche democratiche. La Russia, sapendo di poterne approfittare, ne approfitta.