Le primarie che decisero la fine delle primarie

Le primarie che si sono concluse domenica con il ballottaggio che ha decretato la vittoria di Pierluigi Bersani sono, sotto molti punti di vista le primarie meglio riuscite che il centrosinistra abbia mai organizzato. La partecipazione è stata inferiore ad altri appuntamenti, certo, ma in considerazione del clima di antipolitica diffusa e delle modalità più impegnative che in altre occasioni (doppio turno e registrazione) il dato è comunque ottimo.

Si è trattato delle prime primarie in cui il risultato della competizione era veramente incerto. L’obiettivo della contendibilità, che i teorici delle primarie considerano essenziale, è stato in questo caso pienamente raggiunto.
Inoltre, in queste primarie entrambi i candidati hanno fatto un uso intelligente e consapevole della comunicazione, trasmettendo due immagini molto diverse di sé che facevano esplicitamente capo a due idee contrapposte della politica e delle prospettive per il Paese. Questo è emerso bene anche dallo scontro televisivo del quale, probabilmente per la prima volta in assoluto, quasi tutti i commentatori hanno dato un giudizio positivo.
Infine, l’obiettivo della partecipazione è stato raggiunto non solo nei due giorni delle votazioni, ma anche durante la lunga campagna elettorale. L’interesse con cui la competizione è stata seguita su Internet da innumerevoli utenti (durante il dibattito televisivo l’hashtag #csxfactor è balzato in vetta alle classifiche mondiali) è indicativo di questo.

Si direbbe dunque che si sia assistito a un vero trionfo delle primarie. Eppure paradossalmente questo voto potrebbe segnare simbolicamente la fine, se non delle primarie in sé, almeno di una certa idea delle primarie che è stata dominante da quando sono state ideate e sperimentate nella seconda italiana. E questa sconfitta potrebbe essere un bene per la sinistra, per la politica e per il paese.

 

L’idea delle primarie nasceva dall’assunto che i partiti tradizionali, quelli della prima Repubblica per intenderci, caratterizzati da un forte impegno dei militanti, improntati a una visione del mondo e ispirati da un intento educativo e formativo nei confronti dei loro appartenenti, fossero destinati ad un’irrimediabile decadenza. Si pensava che il futuro fosse il partito liquido, caratterizzato da un’identità debole, che aggregava schieramenti variabili sulla base di mutevoli programmi elettorali, della rappresentazioni di interessi (comunque da non concepirsi come in conflitto tra loro) e di “narrazioni” che venivano trasmesse prevalentemente attraverso i mezzi di comunicazione. La presenza sul territorio, il lavoro politico quotidiano, la discussione nelle sezioni erano considerati elementi obsoleti, rimanenze di un universo ormai superato, che mal si conciliavano con la “leggerezza” e la “velocità” richieste dal “mondo nuovo”.

Così i partiti non riuscivano però più ad adempiere ad uno dei loro scopi principali, quello di formare le classi dirigenti al loro interno, selezionandole attraverso una presenza capillare sul territorio e dei meccanismi di formazione, sia teorica che “sul campo”. Non è un caso che la qualità del personale politico sia così drammaticamente decaduta.

Dunque, dato che comunque qualcuno andava candidato alle diverse cariche, si fece avanti l’idea che il partito doveva selezionare i suoi candidati all’interno della “società civile”, intendendo in teoria con questo termine il multiforme mondo delle professioni, dell’associazionismo, della società colta e informata, e in pratica ristretti circoli che spesso avevano alle spalle l’appoggio dei mezzi d’informazione e di potenti gruppi privati.

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Le primarie erano inserite in questa narrazione. Se i partiti non avevano più alcun diritto di scegliere i candidati (perché venivano concepiti come pesanti “apparati” autoreferenziali, come “Casta” e non come strumenti di formazione e di rappresentazione delle istanze del territorio) allora la scelta doveva essere “aperta”. Chiunque doveva potersi candidare, chiunque doveva poter votare. Non si doveva limitare il diritto di voto solo agli iscritti al partito: questi finivano per non distinguersi in nulla dai semplici simpatizzanti, che a loro volta non si distinguevano dagli elettori in genere. Del resto, se non esistono più “identità”, se non esistono più “appartenenze”, in fondo i concetti di “destra” e “sinistra” perdono significato. Raggruppamenti variabili si formano via via intorno al candidato che riesce a raccogliere più consenso.

Avveniva – cioè – a livello dei partiti ciò che accadeva per la politica più in generale: mediatizzazione dello scontro, personalizzazione, marketing politico. Ma questo meccanismo, lungi dal rendere più democratica la politica, ne accentuava invece l’aspetto elitario. Se all’interno dei grandi partiti di massa il meccanismo interno di selezione permetteva a molte persone di origine umile di emergere, il partito liquido e le primarie rendevano difficile la partecipazione alla politica attiva a chi non fosse già interno a un circolo di conoscenze e non avesse le risorse (proprie o in termini di sostegno economico da parte di privati) per affrontare le spese della campagna elettorale per le primarie.

Renzi è stato l’interprete più coerente di questa idea di partito e di politica (già Veltroni lo era stato in passato ma con dei legami con la tradizione storica del PCI e del suo gruppo dirigente che Renzi voleva invece recidere nettamente). Bersani invece, pur riconoscendo il valore e l’importanza delle primarie (che beninteso, hanno e posso avere se concepite come uno strumento e non come sostitutive della partecipazione all’interno del partito che dovrebbe ritornare in primo piano), ha avviato, fin dall’inizio della sua segreteria nel 2009, un processo di cambiamento, che non è ancora compiuto ma che certo ha fatto molta strada rispetto ai tempi della segreteria Veltroni. Questo cambiamento rivaluta l’importanza della militanza nel partito, insiste sulla necessità di ritrovare un’elaborazione culturale interna e un rapporto con la cultura esterna, concepisce un “rinnovamento” che non è un’OPA ostile della cosiddetta società civile nei confronti del partito ma è un processo che avviene all’interno del partito e che seleziona persone che si sono già confrontate con l’esperienza politica.

Questa è l’idea di partito e di politica che è risultata vincente da queste primarie. Renzi ha avuto l’onestà e la maturità di riconoscerlo, e questo va a suo merito.

La scelta di Bersani lascia aperti molti nodi. Lo schieramento che sostiene Bersani è eterogeneo, va da Enrico Letta a Stefano Fassina (e, uscendo dal PD, a Nichi Vendola). I nodi da affrontare sono molti. Ma queste primarie hanno indicato il terreno su cui dovranno essere affrontati. Questo terreno è quello della politica, per le cui forme bisognerà tornare ad avere rispetto.