Il Governo Monti e la “strana maggioranza”: un anno di scontri ed incontri

Il Governo Monti ha rappresentato per certi versi un’anomalia nella storia politica nazionale, tanto per la composizione apartitica dei propri membri e quanto per la variegata composizione della maggioranza a suo sostegno.

I partiti maggiori, e quelli che componevano il Polo centrista, all’indomani delle dimissioni di Berlusconi sono stati “invitati” dal Presidente Napolitano a sostenere il nuovo governo, nato per rasserenare i mercati, ma dopo un iniziale interesse per alcune cariche ministeriale, hanno preferito esimersi dalla partecipazione attiva alla compagine ministeriale, previa vicendevole rassicurazione.

Il neo Premier ha quindi chiesto da subito alle principali forze un “impegno nazionale”, l’impegno di sostenere misure che potevano essere impopolari quanto necessarie. Ed a renderle ancor più impopolari sarebbe stata la composizione culturale dei partiti a sostegno: difficile trovare punti di contatto tra le richieste di Gasparri e Cicchitto e quelle di Bersani e Franceschini; il centro, il cosiddetto “Terzo Polo”, aveva invece la possibilità di accreditare il proprio progetto politico come perno (appunto) centrale del rinnovamento politico nazionale, con voci più volte circolate e più volte smentite di un appoggio a Monti e/o ai suoi ministri anche per il futuro.

Nell’analisi che segue, prenderemo in considerazione alcune misure tra le più rilevanti, e verificheremo come si è comportata la maggioranza – badando tanto alle dichiarazioni quanto alle votazioni, ben sapendo che il più delle volte si arriva al voto solo dopo una mediazione politica di ampio respiro, che consenta il passaggio delle leggi alle fasi successive.

Verificheremo quanto le preoccupazioni iniziali di molti – rispetto ad un governo che avrebbe esautorato la politica dal suo ruolo –  fossero realistiche, e di verificare quali partiti hanno opposto più resistenze alle misure proposte dal Governo.

In particolare, analizzeremo i punti più significativi del mandato Monti: un mandato “per i giovani e per le donne”, incentrato su “rigore, crescita ed equità”.  In occasione del suo insediamento, il Presidente Monti ha indicato alcuni punti su cui lavorare: tra questi, la riduzione della spesa e dei costi della politica (con un intervento specifico sulle province), la riforma del sistema previdenziale, misure per gli investimenti, lo spostamento del peso delle imposte dal reddito alle rendite ed ai consumi (leggasi IMU e Iva), la lotta alla corruzione. Per questo motivo, andremo ad analizzare le vicende relative a: riforme delle pensioni e del mercato del lavoro, vicenda Imu, liberalizzazioni, crescita e sviluppo, spending review e giustizia.

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Pensioni

Il tema della previdenza è stato affrontato sin dal decreto Salva Italia, il primo biglietto da visita mostrato dal Governo Monti, ritenuto urgente sia per far cassa, sia per dare un segnale chiaro all’Unione Europea ed ai mercati finanziari sulla determinazione del nuovo Governo ad onorare gli impegni presi in sede comunitaria. Per ragioni di equità ed imparzialità, è stato quindi trattato insieme ad altri temi, quali ad esempio le liberalizzazioni e l’imposta sui patrimoni immobiliari.

E’ stato chiaro per tutti sin dall’inizio che sulle pensioni ci sarebbe stata una stretta, che avrebbe portato ad un innalzamento dell’età pensionabile ed un probabile passaggio al sistema contributivo (introdotto nel 1995 dalla riforma Dini, meno generoso rispetto al sistema retributivo).

Una proposta di Pd, Pdl e Udc proponeva un sistema basato su incentivi e disincentivi, che innestandosi sul sistema pensionistico in vigore, avrebbe dovuto rendere flessibile l’uscita dal lavoro tra i 62 ed i 69 anni, mentre opinioni divergenti nascevano sulle pensioni di anzianità, definite dal Presidente della Commissione Bilancio della Camera, Giuliano Cazzola (PdL), il “vero buco del sistema”. Da una parte, infatti, Pdl e Confindustria chiedevano di andare avanti sulla strada dell’abolizione delle pensioni di anzianità, dall’altra Cgil e parte del Pd si dimostravano intransigenti a non superare la soglia dei 40 anni per poterne godere (“40 numero intoccabile” secondo la Camusso). UdC e Cisl invece interessati a trattare e comunque a non mettere i bastoni tra le ruote del neonato Governo Monti.

Una volta presentata la riforma – e fatti i conti con l’urgenza di approvare il testo complessivo – il tema è diventato come rendere meno traumatici alcuni passaggi: innanzitutto, sulla necessità sentita da tutta la maggioranza di adeguare anche le pensioni fino a 1400 euro all’inflazione, cosa che all’inizio non era prevista e che anche per le pensioni più basse sarebbe valsa solo in parte. In questo caso la stessa ministro Fornero si è dimostrata disponibile, in quanto la richiesta non riguardava un elemento strutturale della riforma, ma solo un elemento inserito per reperire risorse.

In secondo luogo, la necessità di aprire conti correnti su cui versare le pensioni, sul quale si è curiosamente battuta l’IdV, malgrado la norma fosse inerente alla lotta all’evasione. Per i dipietristi, infatti, si sarebbe trattato di un aiuto alle banche e per questo la loro richiesta era di abolire i costi dei conti corrente aperti da pensionati.

In terzo luogo, la questione delle pensioni di anzianità. Stante la decisione del Governo di abolirle, e di alzare i requisiti per la pensione “anticipata” (termine volutamente negativo, che in sé presume meccanismi di penalizzazione),  si è invece evoluta in una discussione su come evitare di penalizzare i lavoratori precoci, solitamente impegnati in lavori manuali ed usuranti, pensando per loro a diminuire le penalità per l’uscita anticipata o ad attuare la riforma Fornero solo dal 2017, e su questo le pressioni maggiori sono venute dal Pd. La decisione presa col decreto milleproroghe è stata comunque quella di “salvare” quelli che avrebbero avuto i requisiti nel 2017.

Infine, la questione esodati, coloro i quali accettando accordi con le proprie aziende hanno anzitempo lasciato il proprio posto di lavoro, confidando in un rapido raggiungimento dei requisiti per la pensione. A seguito dell’innalzamento di tali requisiti, queste persone si sarebbero ritrovate senza lavoro né pensione. In fase di approvazione del Decreto, i partiti hanno fatto notare il problema venutosi a creare, ma invece di risolverlo immediatamente, hanno elaborato un odg bipartisan che impegnava il governo a risolverlo in un secondo momento, attraverso il “milleproroghe”.  Ulteriore complicazione, la stima della numerosità della platea degli esodati: le prime stime elaborate dall’Inps (65000 unità) sono state fortemente contestate dai sindacati e dagli stessi partiti, ma è su questi numeri che ha lavorato inizialmente il Ministero, affidando all’Inps il compito di stabilire la quantità certa dei lavoratori coinvolti. Ad aprile, le stime dell’Inps erano di circa 130mila unità, contestate tanto dal governo (che ribadiva le 65mila unità di “salvaguardati”), quanto dai sindacati confederali, che parlavano di 350mila unità coinvolte.

L’11 giugno scorso l’Inps ha reso pubblica la nota di dettaglio su tutta la platea degli esodati:390mila lavoratori, superiori anche alle stime dei sindacati: il ministro Fornero ha “rimproverato” la dirigenza dell’Istituto, ma è stata poi “costretta” a riferire in Parlamento, ed ammettere l’errore di valutazione. Ciò ha poi portato alla ricerca di una soluzione per altri 75000 lavoratori (in tre distinti interventi), ma anche a dover sostenere una mozione di sfiducia individuale promossa da Idv e Lega: la mozione non è passata, ma in molti nel Pdl (Berlusconi, La Russa e Verdini in primis) hanno disertato l’Aula per marcare le distanze.

Su questo tema, sono evidenti tanto la pressione dei partiti e delle forze sociali, quanto il nervosismo del Governo alle prese con stime fatte male e conti da far quadrare: rimangono nella memoria la gaffe di Polillo, che in un’intervista affermò che gli accordi tra lavoratore e azienda potevano ritenersi nulli (salvo fare dietrofront dopo il rimbrotto del ministro Fornero), ma anche la diatriba tra il ministro e le imprese, accusate di essere “coloro che hanno creato la questione esodati”.

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Lavoro

Altra questione importante, la riforma del mercato del lavoro, riforma che nelle intenzioni del governo avrebbe dovuto facilitare l’ingresso di giovani e donne nel mercato, a fronte di una maggiore dinamicità (leggasi flessibilità) del mercato stesso. Si badi bene, “flessibilità buona”, non quella “deleteria” che si è invece instaurata da un decennio a questa parte.

Curiosamente, il dibattito fra esperti si è sviluppato inizialmente nell’area Pd, con le idee del giuslavorista Ichino (poi autore del programma sul lavoro del Monti candidato) da una parte e quelle dell’ex-ministro Damiano dall’altra. Il governo si è mosso sin dall’inizio chiarendo che non si sarebbe parlato solo di Art. 18 – che anzi sarebbe stato l’ultimo argomento da trattare – e dando spazio alle rappresentanze sociali, sia con incontri bilaterali che con tavoli comuni, dimostrando per un verso una determinazione forte ad arrivare al risultato, dall’altro l’interesse di coinvolgere le parti sociali in una decisione prevedibilmente indigesta: il capolavoro del ministro Fornero è stato quello arrivare ad un accordo sull’Art.18 con il sì di Cisl, Uil e Ugl, sì poi parzialmente rinnegato appena due giorni dopo la firma da Bonanni ed Angeletti.

Si diceva del Pd, ed in effetti è stato proprio il Pd il primo ad intervenire, chiamato in causa dalla Cgil, per modificare almeno in parte il nuovo Art.18, ed ottenere norme che consentano la partecipazione dei sindacati rappresentativi nelle RSU, anche se non firmatari dei contratti (in sostanza, evitare altri casi Fiat-Fiom). La risposta del Pdl è stata quella di schierarsi in difesa delle organizzazioni datoriali, convenendo con l’ex presidente Marcegaglia sulla necessità di aumentare la flessibilità in entrata a fronte di un arretramento sulla flessibilità in uscita. Ad onor del vero, che le due cose si sarebbero dovute tenere insieme, l’aveva premesso la stessa ministro Fornero.

La discrezionalità lasciata al giudice, sulla possibilità di reintegrare un lavoratore licenziato per insussistente motivo economico – voluta da Cgil e Bersani per evitare un uso strumentale di tale clausola di licenziamento – infatti mal si adatta al giudizio che Alfano e tutto il Pdl hanno della magistratura (o della “giurisprudenza in materia”, come ha tenuto a precisare lo stesso Alfano ad un convegno di Confagricoltura), rea di privilegiare aprioristicamente la tutela del posto di lavoro. Di contro, la gran parte delle associazioni datoriali ha giudicato troppo stringenti – e poco adatte alle necessità soprattutto delle Pmi e delle imprese agricole – le norme relative all’ingresso nel mercato del lavoro, che penalizzeranno i contratti a termine – di cui sono aumentati i costi – e le ”sedicenti” partite iva, per cui si sono aperti ampi spazi per l’azione del Pdl.

Il testo è andato in discussione alle Camere sotto la forma di Disegno di Legge (per favorire la discussione, mentre il Pdl avrebbe preferito un decreto, per uniformità rispetto all’iter sulle liberalizzazioni). A causa delle critiche di Confindustria, i più attivi della maggioranza nel contrastare la riforma nel passaggio in Senato sono stati Alfano e Gasparri, salvo poi arrivare a degli emendamenti concordati tra le forze di maggioranza ed il governo per approvare rapidamente la fiducia. Fiducia che al Senato è stata votata alla fine di maggio, prevedendo una minore discrezionalità del giudice ed un maggiore ancoraggio ai CCNL per quanto riguarda i licenziamenti.

Il conflitto tra le parti in causa è continuato anche dopo, però, pur con le limitazioni dovute alla fiducia. Soprattutto sul fronte sindacale, dove le dichiarazioni della Camusso sono state molto aspre, e quelle di Squinzi addirittura triviali. Sul fronte parlamentare, è stata la necessità di anticipare il voto di fiducia alla Camera (dai primi di luglio alla fine di giugno in modo da consentire al Governo in carica di presentarsi ai vertici europei con un traguardo raggiunto) a riaprire la discussione: per il Pd, ciò si poteva fare a patto di votare contemporaneamente anche sugli esodati, per il Pdl era invece necessario cambiare le norme sulla flessibilità in entrata (Brunetta era arrivato a “riscrivere” la riforma, salvo poi lasciar perdere per la contrarietà di Alfano e Berlusconi). È toccato quindi all’UdC ed a Fli far da paciere (“il tema esodati interessa anche a noi, ma non per questo si può bloccare la riforma”, affermava a metà giugno il centrista Galletti). Con quattro fiducie – e la garanzia di un successivo esame di alcuni nodi lasciati irrisolti – la riforma è diventata legge appena in tempo per il vertice europeo di fine giugno, quello in cui il Premier Monti ottenne le prime “vittorie” nei confronti della Cancelliera Merkel.

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IMU

All’interno del decreto Salva Italia è stata inserita anche l’introduzione anticipata dell’Imu, imposta municipale ideata dal Governo Berlusconi nell’ambito del Federalismo fiscale ma inizialmente prevista per il 2014, poi per il 2013, includendo nella stessa l’imposizione fiscale sulla prima casa, nella doppia ottica, da un lato, di fare cassa, dall’altro di spostare il peso del fisco dal lavoro alle rendite.

Sull’Imu si sono aperti numerosi fronti, da tutti i maggiori partiti presenti in Parlamento. Innanzitutto, sull’opportunità politica di reintrodurre una tassa sulla prima casa, dopo che la sua abolizione era stata un cavallo di battaglia nella vittoriosa campagna elettorale del centrodestra.

Ad opporre le resistenze più forti è stata la Lega, che arrivò a propagandare lo sciopero fiscale, supportata dalla sua rete di sindaci ed amministratori locali. Nessun partito della maggioranza, né tantomeno l’Anci l’ha però supportata. Lo stesso Pdl si è accontentato dell’approvazione di un proprio odg in cui si impegna il governo a valutare per il futuro l’abolizione della tassa sulla prima casa. Il Pd ha invece difeso il provvedimento in sé, ma ha proposto di rimodulare l’imposizione a svantaggio delle case di lusso, ed eventualmente di alleggerire la portata dell’imu con una sorta di patrimoniale per i grandi patrimoni. L’Anci, sostenuta in particolare dal Pd, ha invece chiesto di poter gestire la gran parte del gettito, che allo stato attuale è invece quasi tutto nelle disponibilità del Governo.

Altre problematicità sono poi sorte rispetto alla platea dei paganti: in particolare, la normativa da un lato esclude dal pagamento le Fondazioni Bancarie, in quanto enti no profit, dall’altro impone il pagamento anche agli anziani ricoverati in case di riposo, i quali hanno dovuto pagare con l’aliquota destinata alla seconda casa a meno che i propri comuni di residenza non abbiano deciso – a proprie spese – altrimenti. Su questi due punti sono intervenuti prevalentemente l’IdV e la Lega, senza successo.

Infine, la più trasversale tra le polemiche, l’esenzione degli immobili appartenenti alla Chiesa Cattolica. Trasversale perché esponenti di primo piano di Pd, Terzo Polo e Pdl vi si sono divisi: tra gli azzurri, la Polverini si è spesa affinché tali immobili fossero tassati, mentre Mantovano affinché si spegnesse subito la polemica. Stesse divisioni tra Dalla Vedova e Casini, e tra la componente radicale e Stefano Ceccanti nel Pd. La soluzione di compromesso che si è trovata è stata l’approvazione di un emendamento governativo al decreto liberalizzazioni, che disponeva il pagamento dell’imu sulle attività commerciali, anche se di proprietà di enti non commerciali. Lo stesso Monti ha spento le preoccupazioni di diversi esponenti – soprattutto del PdL e dell’UdC – chiarendo che scuole paritarie e ospedali sarebbero rimasti esenti dal pagamento dell’Imu.

L’UdC, seppur toccata su un punto sensibile, non ha alzato barricate, vuoi perché soddisfatta sul lato del quoziente familiare, vuoi perché le stesse gerarchie hanno sostenuto le misure prese dal governo. Piuttosto, si è impegnata sul fronte del sostegno all’agricoltura, ottenendo parziali modifiche e la riduzione della prima rata, al 30% del totale.

Come tutti sanno, l’IMU è stata poi al centro della campagna elettorale da poco conclusa, con la promessa berlusconiana di restituire quanto pagato sulla prima casa nel 2012, ma questo è un altro discorso.

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Liberalizzazioni

Considerati i curriculum tanto di Monti quanto di Catricalà, l’argomento liberalizzazioni è quello su cui molti commentatori si aspettavano una forte azione di rinnovamento. Ed in effetti, di liberalizzazioni ci si è occupati fin dal decreto SalvaItalia. Ed è stato subito scontro, con le diverse lobby: prima ancora della firma del Colle sul decreto, si esponevano la CGIA (contestando i risultati ottenuti dalle lenzuolate bersaniane) e i taxisti, che attraverso il sindaco della Capitale Alemanno mettevano in guardia il governo dal toccare le licenze. Per quanto riguarda le farmacie, in questa fase il progetto riguardava la vendita dei farmaci di fascia C presso le parafarmacie e sull’apertura di nuove farmacie per concorso: si scontravano farmacie (col supporto di Farmindustria) e parafarmacie (col sostegno implicito delle Coop), sostenute le une dal PdL, le altre naturalmente dal Pd.

Sia sui taxi che sulle farmacie, è stato con emendamenti del governo che le liberalizzazioni sono state affossate: nel primo caso, grazie ad un intervento di Gasparri e del Sindaco di Roma, accordatisi sin da subito con il Premier; nel secondo sfruttando momenti di concitazione, l’inesperienza del ministro Giarda – firmatario dell’emendamento che di fatto assegnando all’Agenzia del Farmaco il compito di definire la lista di farmaci vendibili fuori dalle farmacie convenzionali, ha diluito la portata della liberalizzazione – e la posizione dominante dell’on. Conte (PdL) che, da presidente della Commissione Bilancio della Camera, ha potuto fermare il Pd, intenzionato a presentare subemendamenti. Salvi anche gli Ordini professionali, invitati a riformarsi, pena l’abolizione, e le banche, che grazie ad un emendamento Idv possono continuare a proporre assicurazioni sulla vita abbinate ai prestiti, dopo che la pratica era stata abolita dall’Isvap.

La “battaglia” sulle liberalizzazioni è continuata anche nella cosiddetta “fase 2”, quella dedicata alla crescita, che si inaugurò proprio con la relazione dell’antitrust sullo stato delle liberalizzazioni in Italia: è bastato parlarne, e le diverse lobby hanno ripreso a muoversi: tassisti e farmacisti, ma anche notai, medici di base, avvocati…

Il provvedimento varato dal CdM presentava un impianto complesso, che toccava numerosi argomenti, un equilibrio che lo stesso Premier invitava “a non toccare”. All’analisi della Commissione Industria del Senato però si sono presentati oltre 2300 emendamenti, di cui circa 1500 da Pd e PdL. La stessa maggioranza ha però poi convenuto di presentare un unico maxiemendamento da sottoporre alla votazione dell’Aula, maxiemendamento su cui tra l’altro il Governo ha posto la fiducia.

Anche in questo caso Pd e PdL si sono schierati a difesa di interessi divergenti. I democratici in modo particolare hanno rilanciato la possibilità per le parafarmacie di vendere farmaci di fascia C, e per estendere a tutti i gestori di pompe di benzina la libertà di approvvigionamento. Il PdL, ha invece garantito di farsi promotore delle istanze delle categorie e delle professioni, puntando piuttosto il dito contro banche ed assicurazioni: in realtà, le principali divergenze rispetto al Pd hanno riguardato l’apertura di nuove farmacie (cercando di aumentare il numero di abitanti per ogni nuova apertura), il ripristino delle tariffe minime e l’abolizione del preventivo obbligatorio per gli ordini professionali ed il potere dato ai sindaci di contrattare con l’apposita autorità sulla concessione di licenze per quanto riguarda i taxi.

E Casini? Il leader del Terzo Polo in tutta la vicenda “liberalizzazioni” ha mantenuto un atteggiamento di pieno sostegno al Governo, dichiarandosi più volte disponibile a ritirare i suoi – pur tanti – emendamenti, in un’ottica di disarmo generale in favore del Governo.

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Crescita e Sviluppo

La crescita avrebbe dovuto rappresentare la cosiddetta “Fase 2” del Governo Monti, la promessa di un rilancio dell’economia dopo la “cura di antibiotici” quali tasse e rigore. Ne parla il Premier già nel discorso di insediamento, poi più volte il governo associa l’obiettivo “crescita” agli atti più rilevanti del suo mandato, come le liberalizzazioni e la riforma del mercato del lavoro.

Il primo vero e proprio provvedimento per la crescita è stato il “Decreto Sviluppo”, entrato nella discussione a marzo e divenuto legge agli inizi di agosto dopo una lunga gestazione, che ne ha minato la credibilità. Le richieste iniziali dei partiti di maggioranza erano piuttosto divergenti: il Pdl proponeva un alleggerimento fiscale, il Pd soprattutto una patrimoniale e un’imposta sui patrimoni scudati al fine di alleggerire l’IMU sulle famiglie con reddito medio-basso. Le bozze iniziali circolate tra i ministeri parlavano invece di detraibilità per mutui e ristrutturazioni, piani infrastrutturali, una rivisitazione degli incentivi fiscali (razionalizzarli per renderli anche più esigibili): bozze subito bloccate dal Ministero dell’Economia, con rammarico e comprensibile stizza dei ministri Passera e Profumo.

Più volte rinviato, il decreto Sviluppo è stato al centro di critiche da parte di Pd e Pdl, che ne hanno giudicato le prime bozze inadeguate a creare sviluppo, ma anche come detto degli stessi ministri interessati, in primis il titolare del dicastero dello Sviluppo, disponibile, pur di veder passare un provvedimento, di spacchettarlo in più tranche, di aspettare per misure più efficaci che si ritrovassero i fondi attraverso gli effetti della spending review (vedi sotto). Dopo il pressing (anche) del Capo dello Stato, il CdM è infine giunto all’approvazione di un piano per lo sviluppo da 80 mld, quindi persino più robusta di quanto richiesto inizialmente dal ministro Passera. Project bond, infrastrutture, Pmi e giovani nella Green Economy, un piano per la cosiddetta “Italia Digitale”, un “Piano Città”, agevolazioni per le ristrutturazioni e per la costituzione di Srl, una cura dimagrante per la PA, con le dismissioni di Fintecna, Sace e Simest e il taglio dei dirigenti della Presidenza del Consiglio e del Ministero dell’Economia. La critica più dura al decreto è arrivata dal segretario del Pdl, Angelino Alfano, che su twitter ha ironizzato sulla reale consistenza del pacchetto: “I giornali annunciano 80 miliardi nel decreto legge sviluppo. Ci sembra che 79 siano virtuali, uno solo effettivamente stanziato… ah, l’avessimo fatto noi”. Ancor più sarcastico l’ex ministro Brunetta, che parla senza mezzi termini di specchietti per allodole e colpi di teatro.

Come detto il decreto è diventato legge il 3 agosto, con un iter piuttosto veloce nei due rami del Parlamento, che l’hanno “arricchito e raffinato” (cit. Passera) di ulteriori norme riguardanti il lavoro, l’edilizia, l’iva e la mobilità.

Come promesso, di crescita si è poi tornati a parlare alla fine di agosto, quando nel primo CdM  dal ritorno dalle vacanze è stato presentato “Obiettivo crescita, l’agenda del Governo”, una summa del lavoro fatto sin ad allora con le prime proposte per gli ultimi mesi della legislatura. Proposte accolte con grande scetticismo dalla maggioranza: da Bersani a Cicchitto, finanche al segretario centrista Lorenzo Cesa, il richiamo è stato alla concretezza, alla necessità di cambiare passo, di passare dalle parole ai fatti. Il decreto Sviluppo-bis si può poi considerare l’ultimo atto del governo uscente, avendo ottenuto l’approvazione del Parlamento con l’astensione del partito guidato da Alfano a seguito delle dichiarazioni rilasciate dal Ministro Passera sull’inopportunità del ritorno sulla scena politica di Berlusconi. Di lì a poco, Monti rassegnò infatti le dimissioni e si cominciò la campagna elettorale anticipata.

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Spending Review

Sulla Spending Review il discorso è diverso dai precedenti. Innanzitutto, cos’è la “spending review”? detto semplicemente, è la revisione della spesa pubblica, l’analisi di come lo Stato utilizza i fondi derivanti dalle imposte e dall’indebitamento, per valutare se e quali sprechi vi si annidano e come evitarli. In molti paesi (tra tutti, il Regno Unito) se ne fa largo uso da decenni, in Italia è stata introdotta nel 2007 dall’allora ministro Padoa Schioppa ed abolita dal Governo Berlusconi (che l’ha sostituita con i tagli lineari del Ministro Tremonti), salvo poi essere recuperata con un emendamento presentato dal Sen. Morando (Pd)  nella manovra dell’agosto 2011.

Perché ne nasce un discorso diverso? Perché, banalmente, laddove si annidino sprechi, la responsabilità è da ricercare in chi governa o ha governato. Si tratta, quindi, molto spesso di un argomento usato da chi attacca tutti i partiti, e di un argomento su cui i partiti – pur non facendo quadrato, ed anzi difendendo ciascuno le proprie ragioni – sotto tutti o quasi sotto attacco. Alla luce poi della gravità delle misure presentate da Monti e controfirmate dal Parlamento, è anche più difficile per la classe politica argomentare sulla natura e sulla necessità di talune spese (come quelle relative al finanziamento elettorale).

Molti organi di stampa, da La Repubblica, al Fatto Quotidiano, hanno presentato articoli e dossier di denuncia di diversi sprechi ed inefficienze – dalla Sanità, agli enti locali, dalle partecipate, ai costi delle compensazioni per le opere pubbliche. I due massimi esperti in materia, gli editorialisti del Corriere Rizzo e Stella, in un articolo pubblicato a dicembre del 2011, elencavano diverse voci di spesa su cui il Parlamento avrebbe potuto  lavorare: sul rimborso elettorale, sulla trasparenza dei dirigenti e dei parlamentari, sui bilanci dei partiti, sulle dotazioni delle Camere e del Governo, sugli enti locali, su vitalizi e autoblu. Noi, per analizzare quanto fatto, definiremo due macro-categorie: i costi della politica e gli sprechi della pubblica amministrazione.

Quanto ai costi della politica, il Governo ha pochi margini di manovra, ma ha voluto lanciare un segnale sin dal suo primo mese di vita attraverso la misura riguardante le province, declassate a organismo di secondo livello e fortemente depotenziate, causando le ire dell’Upi (Unione delle Province) ma un sostanziale lasciapassare della politica nazionale, che ha emendato solo sulla chiusura immediata delle stesse. Ancora le province sono state protagoniste di un lungo lavoro di riorganizzazione, con la riduzione delle stesse a 51 (più le città metropolitane) attraverso un apposito decreto legge firmato il 31 ottobre scorso.

Quanto invece ai costi dei parlamentari, si è dovuto attenere all’indipendenza della Camera. Per cui, le misure adottate sono quelle decise degli uffici di presidenza della Camera e del Senato, come il taglio dei vitalizi (con passaggio al sistema contributivo e l’apertura di un fondo con parte dei risparmi ottenuti), la riduzione delle indennità di carica del 10% e il taglio dei benefit degli ex-Presidenti (con l’eccezione degli ultimi tre).  Sul finanziamento ai partiti, la polemica è invece montata dopo i casi Lusi (Margherita)  Belsito (Lega) e Fiorito (Pdl): soldi pubblici, molti, legittimamente assegnati alle casse dei partiti, ma utilizzati a fini personali dai tesorieri. In questo caso, gran parte della politica ha ceduto il passo al populismo:  Maroni ha affermato che la Lega avrebbe rinunciato all’ultima tranche dei rimborsi elettorali 2008, Alfano che avrebbe riformato il partito in modo da non dover più fare affidamento ai rimborsi; Bersani dal canto suo ha messo in guardia dai rischi che si corrono eliminando il finanziamento pubblico ed ha proposto un taglio del 50% sull’ultima rata ed una riforma del sistema che premiasse l’autofinanziamento. I partiti si sono poi effettivamente accordati su un taglio del 50% e sull’obbligo di revisione dei bilanci dei partiti, presentando un emendamento comune, votato però da un aula semivuota.

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Per quanto concerne, invece, gli stipendi dei parlamentari, la Commissione che avrebbe dovuto studiare la situazione europea ed uniformarvi la legislazione italiana, ha rinunciato al proprio compito, ritenuto irrealizzabile a causa della non uniformità delle voci di spesa presenti nel panorama europeo. Ciò fatto, però, ha reso noti i risultati parziali dell’indagine, causando reazioni contrastanti: chi, come Di Pietro, invocava l’urgenza di provvedere subito a tagliare gli stipendi, chi, nel Pdl, affermava che tali risultati provavano l’insussistenza dell’accusa di guadagnare troppo, e chi come Rotondi, ironizzava proponendo il mandato gratuito a titolo onorifico.

La spending review della pubblica amministrazione è stata oggetto di un’analisi meno mediatica, malgrado, come si diceva, alcuni dossier dei principali quotidiani. Il caso forse più pubblicizzato è stato quello relativo all’acquisto di nuovi velivoli militari, i famosi F35 che in futuro dovrebbero sostituire quelli attualmente in uso. Si è arrivati al compromesso di ridurne il numero, ma ribadendone l’utilità.

A fine aprile 2012 il ministro Giarda ha presentato al CdM il dossier definitivo, individuando su quali ministeri intervenire prioritariamente (difesa, interno, esteri, istruzione e giustizia, graziando quindi la sanità) e definendo una tipizzazione degli sprechi (organizzativi, produttivi ed economici). Si è altresì insediata una commissione di tecnici (Bondi, Giavazzi e Amato) che hanno avuto il compito di coadiuvare Giarda e Patroni Griffi nella definizione del piano d’azione.

Ma la Spending Review non è solo tagli ai privilegi, come vorrebbe una buona parte della pubblicistica in materia: rivedere la spesa può voler dire incidere pesantemente sui cittadini comuni, sui dipendenti pubblici, sugli ammalati, e così via. Nella seconda fase inaugurata con l’insediamento di Bondi, Giavazzi e Amato, si è infatti entrati maggiormente nel dettaglio dei tagli da fare, ed allora le proteste si sono fatte maggiormente sentire. La prima idea oggetto di contestazione politico-sociale è stata quella relativa all’inserimento di un “pacchetto pubblico impiego”, volto a ridurre appunto le spese del pubblico impiego in tre modi: taglio dei Dirigenti, mettendo in mobilità quelli con oltre 40 anni di servizio, taglio degli stipendi, per tutti i dipendenti, a cui veniva aggiunto un taglio ai buoni pasto, e taglio delle piante organiche degli enti pubblici, anche periferici, del 5% in media. Le maggiori preoccupazioni, come prevedibile sono arrivate dal Pd e dai sindacati, preoccupati anche dalle ripercussioni sul livello dei servizi associati al numero dei dipendenti.  Altre preoccupazioni hanno riguardato invece i ministri o gli amministratori coinvolti: tra i primi, il ministro della Salute, preoccupato dal taglio sull’acquisto dei servizi intermedi (tra cui le Tac) e sulla riduzione dei posti letto in ospedale (tema però demandato alle regioni); tra i secondi, i Presidenti delle Province, tagliate di circa il 50%, sono stati per così dire “sacrificati” dalla politica, che ha accettato il piano di riorganizzazione dell’ente, cercando solo di allungare i tempi della riorganizzazione stessa, mentre sono stati ascoltati i Sindaci, scesi in piazza a fine luglio per protestare contro i tagli, a loro parere indiscriminati, minacciando di violare in massa il piano di stabilità (non per protesta, ma per necessità). In difesa di questi ultimi si sono schierati tanto Alfano quanto Bersani.

Pur marciando su un binario autonomo si può ricondurre alla spending review anche la revisione dell’organizzazione giudiziaria, che ha portato alla soppressione di numerosi “tribunalini” e sedi distaccate, provocando forti reazioni tanto dall’ordine degli avvocati, quanto dall’ANM, quanto dai rappresentanti dei territori “colpiti”. Il Ministro Severino si è però strenuamente difesa, affermando che con la riorganizzazione si otterranno risparmi ed efficienza, rivendicando la correttezza ed a-politicità dei criteri adottati.

Tra fine luglio e inizi di agosto Senato e Camera hanno approvato la Spending review facendola diventare legge: ulteriori modifiche sono state apportate sul tema della Sanità, stringendo i margini di manovra dei medici di base nella prescrizione di farmaci “di marca”. Degno di menzione il numero di deputati Pdl che hanno votato favorevolmente: 84, su oltre 200 membri del gruppo.

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Giustizia

Il tema più divisivo per la “maggioranza evanescente” a sostegno del Governo tecnico è però stato quello della riforma della Giustizia, sul quale i due poli si dividono sin dal 1994. In questi mesi il tema si è articolato in tre filoni: lotta alla corruzione, responsabilità civile dei magistrati e intercettazioni.

Per quanto concerne il tema delle intercettazioni, la discussione è stata bloccata per un lungo periodo, ritenendo il governo troppo rischioso partire da qui. L’idea iniziale del Governo pareva quella di ripartire dai ddl Mastella e Alfano-Ghedini, tenendo però conto sia delle preoccupazioni degli organi di stampa che della magistratura. Numerose volte il Pdl ha chiesto di poter discutere le intercettazioni, ma nonostante la vicenda che ha visto coinvolto il Presidente Napolitano la scorsa estate, la richiesta non è stata mai esaudita, anzi, il testo sulle intercettazioni è stato usato per chiedere al Pdl di non ritardare l’approvazione dell’anticorruzione in Senato.

Il tema della responsabilità civile dei magistrati è stato invece portato avanti dalla Lega Nord, più che altro per dividere la maggioranza e mettere in difficoltà il Governo. L’emendamento alla Legge Comunitaria 2011, presentato a febbraio dall’On. Pini, prevede che il magistrato sia chiamato ad assumersi direttamente la responsabilità – senza il tramite dello Stato – in caso di “manifesta violazione del diritto”, e non solo per dolo o colpa grave. A favore dell’emendamento hanno votato sia la Lega che il Pdl, malgrado il parere contrario del Governo. Su questo fronte l’idea del Governo era di modificare l’emendamento al Senato, ma è stato materia di scontro tra Pd e Pdl, con quest’ultimo inizialmente intenzionato a sacrificare la norma per altre contropartite nell’ambito della corruzione. Non avendole ottenute, da parte dello stesso Alfano, ma soprattutto dei falchi Gasparri e Cicchitto, si è più volte ventilata l’idea di votare l’emendamento Pini malgrado la presenza di un emendamento di mediazione firmato dalla stessa Severino, al quale si era opposto anche il Pd.

Il ddl sulla lotta alla corruzione porta il nome del segretario del Popolo della Libertà, che vi aveva lavorato nella precedente veste di Ministro della Giustizia. Il Ministro Severino, quindi, dopo diverse riunioni coi rappresentanti della sua maggioranza, preso atto che quel ddl non sarebbe potuto andare avanti senza modifiche, ha elaborato un maxiemendamento sulla cui discussione in Commissione Giustizia, alla Camera, si sono riproposte maggioranze trasversali che rispecchiano gli schieramenti precedenti alla “strana maggioranza” e ostruzionismi da parte del Pdl.

Le modifiche proposte dal Ministro Severino prevedevano l’inserimento di nuove forme di reato, quali il traffico d’influenze e la corruzione tra privati e lo spacchettamento del reato di concussione, nelle due forme di corruzione per costrizione – più grave – “per induzione a dare o promettere pubblica utilità”, con un generale lieve inasprimento delle pene, funzionale ad allungare i tempi per la prescrizione e quindi a rendere più efficace la lotta alla corruzione.

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Il punto più discusso è stato quello riguardante il reato di concussione – per il quale è accusato Berlusconi nel processo Ruby. Da tempo infatti il Consiglio d’Europa chiedeva di modificarlo, ma per molti esso aveva una caratteristica fondamentale per la lotta alla corruzione: il concusso è ritenuto vittima, per cui è più facile che collabori con la giustizia rispetto al corrotto, che è invece reo. A suo tempo sia Pd che IdV hanno presentato proposte di modifica, ma le hanno entrambe ritirate perché rischiavano di favorire proprio l’ex Premier. Il reato di “corruzione per indebita induzione” riguarderebbe anch’esso Berlusconi, e però prevede pene – e quindi tempi per la prescrizione – più severe, che non lascerebbero tranquillo il Pdl.

Dopo numerosi “agguati” in Commissione, il Ministro Severino il 22 maggio aveva raggiunto un accordo con tutte le forze politiche su un testo che passasse il vaglio della Commissione stessa, con l’astensione del Pdl ed il voto contrario dei soli dipietristi. Per evitare nuove bagarre alla Camera, peraltro già cominciate, col Pd che chiedeva ulteriori inasprimenti delle pene e il Pdl che ripresentava il “salva Ruby”, il Governo decise di adottare una serie di emendamenti su cui chiedere la fiducia, bocciando di fatto tutti quelli presentati dai partiti. La fiducia alla Camera è arrivata, con 354 sì, di cui solamente 98 dal Pdl, ma le polemiche non sono certo scese: se il Pd ha parlato di svolta epocale, l’Idv ha parlato di legge “pro-corruzione” ed il Pdl di legge contra personam (malgrado la persona stessa abbia votato la fiducia). Nei mesi successivi, il Pdl ha ripetutamente evocato la necessità di rivalutare almeno due elementi della legge, induzione e traffico di influenze, invitando la Severino a non ripresentare la fiducia in Senato, pena il voto contrario del Partito. Agli inizi di ottobre tre emendamenti (su magistrati fuori ruolo, corruzione privata e traffico di influenze) presentati dal ministro Severino mettono d’accordo tutta la maggioranza, che a metà mese vota la fiducia in Senato con i distinguo di tutti i partiti, che segnalano come la nuova norma contenga considerazioni non vicine a quelle dei vari partiti della maggioranza. Nel successivo passaggio alla Camera, l’anticorruzione otterrà anche i voti della Lega Nord e la richiesta di “paternità” da parte del Pdl (in quel periodo interessato a marcare le distanze dagli eventi della Regione Lazio).

E’ stato questo il più grande successo del Governo Monti, ottenuto con sapienza e attenzione dalla Ministro Severino – probabilmente la migliore della compagine governativa – ed è forse il caso di sottolineare la replica della stessa a chi, approvando la legge, affermava che “si poteva fare di più”: “No, non si poteva fare di più. Le norme sulla prescrizione, sul falso in bilancio, autoriciclaggio, voto di scambio, avrebbero avuto l’effetto di rallentare, se non bloccare la legge, su cui il Parlamento dibatte da anni”.

 

Conclusioni

In conclusione, possiamo fondatamente affermare che il Governo Monti non ha assolutamente “commissariato” la politica, come qualcuno temeva,  ma che anzi ha reso più evidente la natura parlamentare delle nostre istituzioni.

I partiti della maggioranza, come detto all’inizio, non hanno mai condiviso un progetto comune, sono e sono stati antitetici su molte questioni di largo respiro. Ed infatti in uno schieramento comune, sono stati sollecitati su molti temi sensibili.

Se da un lato hanno dovuto mostrare responsabilità per superare il difficile contesto economico in cui tuttora versa il Paese, dall’altro hanno sentito la necessità di non abdicare al proprio ruolo, non hanno rinunciato alla difesa delle proprie posizioni su dispute di lunga tradizione, come quella sulla giustizia, ed hanno continuato a rispondere agli interessi ed alle richieste del proprio elettorato più organizzato (farmacisti o pensionati che siano), anche per l’avvicinarsi della campagna elettorale. 242,18

Il prossimo Governo, quale che sia, dovrà confrontarsi non solo con la crisi economica, con la fine della seconda repubblica, con maggioranze prevedibilmente difficili da gestire, ma anche con il lascito di questo Governo, decidendo quanto salvare e quanto invece cancellare. Si è dimostrato che la politica può essere fatta da persone capaci o meno capaci, e che non esiste una sola via giusta da perseguire, come non esiste un solo “bene” da tutelare. Si spera che il prossimo governo – quale che sia – riesca a risollevare le sorti del Paese.