Perché Bersani ha non vinto

Gestire una non vittoria sarà complicato e duplice sarà la tentazione: dare la colpa alla legge elettorale oppure tentare lo spericolato velleitarismo e avventurarsi nel topos della letteratura politica italica per eccellenza, la vittoria mutilata. Verrà severamente additato il porcellum come la grave infezione che trasforma il Senato in una sorta di lotteria con premi di maggioranza frazionati regionalmente con una ripartizione più complicata dei grandi elettori delle presidenziali americane. “Il centrosinistra non può governare, perché i premi sono ripartiti a livello regionale” è il pensiero destinato ad accompagnare le cronache politiche – almeno – del prossimo mese. Dall’acuta diagnosi medica a rapidi passi si passerà a invocare la penicillina della sua riforma: il doppio turno di collegio (come Bersani chiama impropriamente l’uninominale francese) o il ritorno ad un plurality spurio, il Mattarellum. E qui non c’entra tanto il dover ribadire che il porcellum sia stato nel tempo così detestato per avere avuto una levatrice sui generis in un leghista, professionalmente noto più per le protesi dentarie che per la padronanza dei ferri dell’ingegneria costituzionale, ma da essere al tempo stesso contestato da 945 parlamentari e quasi da tutti salvato nel momento in cui c’era da riformarlo. Per la cronaca nell’ultima legislatura alla solita levatrice era stato affidato l’incarico di stendere un nuovo sistema elettorale: a testimonianza di quanto fosse elevato il desiderio di lasciare le cose come stavano. No, l’analisi da fare vorrebbe prescindere dalla pigrizia bipartisan di criticare pubblicamente la legge Calderoli e di tenersela stretta per altri 5 anni nella speranza di papparsi il premio di maggioranza monstre al giro successivo. Sono cortine fumogene: possono catturare l’attenzione, ma restano delle distrazioni.

Riportiamo qual è stato il verdetto degli elettori: Bersani non può governare, perché non ha vinto le elezioni Politiche. Il Partito Democratico cala dal 33% dei tempi di Veltroni – ora lo possiamo dire con coscienza storica: immotivatamente crocifisso dai suoi compagni un anno dopo – al 25%, mentre la coalizione si ferma al di sotto del 30%. Il flop di Vendola è ancor più bruciante, ma c’è un quesito da non far cadere nel dimenticatoio: che fine hanno fatto quei 3 milioni di elettori (l’8% circa) scomparsi dall’alveo democrat rispetto al 2008? Con una congiuntura peraltro che più favorevole non poteva essere per Bersani e per il centrosinistra. I fallimenti politici con lo sfascio del centrodestra berlusconiano, un anno di rigore con misure impopolari che avevano ferito soprattutto l’opinione pubblica conservatrice doveva aprire praterie di consensi contendibili per il centrosinistra. Invece in un mese e mezzo di campagna elettorale è franato il Partito DemocraticoScendendo a livello di coalizione sotto il 30% e limitando il vantaggio sul centrodestra allo 0,3%. Apro una parentesi: in quale democrazia del mondo si può pensare di gridare vittoria e di avere una maggioranza investita del mandato per governare con meno di mezzo punto di vantaggio e la legittimazione di neanche un terzo dei votanti? Sarà argomento di prossimi articoli e di analisi che coinvolgeranno il mondo mediatico, quello degli istituti demoscopici e dei maggiori politologi su questo capolavoro del suicidio politico, ma possiamo cercare di fornire una ricostruzione con una dose di senno. Va premesso, non è esauriente. Cerchiamo di elencare però quali errori sono imputabili al modo in cui Pierluigi Bersani ha accompagnato il centrosinistra all’appuntamento elettorale: 1) Dal 2 dicembre il leader di Italia Bene Comune è progressivamente scomparso dalla scena mediatica e ha condotto una campagna coi toni rassicuranti del vincitore segnato dal destino prima ancora che dalle urne; 2) Rispetto alle primarie non ha cambiato target di elettori, ai quali rivolgersi; 3) Farsi seppellire dal framing che ha connesso la prima rata dell’Imu ai Montibond per il Monte dei Paschi di Siena; 

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Sul primo punto basta rifarsi alle parole pronunciate dal nostro il giorno in cui Angelino Alfano tolse ufficialmente la fiducia al governo Monti, provocando le elezioni anticipate. Quelle parole scandite a distanza di circa due mesi e mezzo hanno il suono di una dichiarazione programmatica: “A voi i cieli azzurri, le favole. A noi la realtà”. Abbiamo capito presto a cosa si riferisse. Le capacità di narrare si sono limitate a metafore inintellegibili ai più (tradendo peraltro la funzione emozionante della metafora, altro capolavoro) e una fuga all’indietro ben codificata dalla pompa di benzina di Bettola, la Panda rossa ecc, mentre il marketing politico è stato delegato per intero a Berlusconi (che ha sfruttato appieno la sua natura underdog). Riprendere Bettola ci consente di arrivare al 2° punto, l’errore di target, che all’inizio fu una giusta intuizione: la vittoria alle primarie arrivò anche grazie al racconto di un’umile storia popolare (quella del figlio di un meccanico) e di una dimensione operaia-piccolo artigiana con posizioni socialdemocratiche classiche. Ottimo per fare il pieno fra le truppe piddi. Peccato che in Italia il suo esercito, quello progressista erede della sinistra Dc e dell’ex Pci, sia cronicamente minoritario. E – una volta vinte le primarie – non sapere adattare il proprio messaggio al vasto elettorato in fuga dal centrodestra non è stata una grande trovata per costruire una vittoria. Il nostro, però, ci ha fatto dubitare una volta di più delle sue capacità di leadership con quella che doveva essere un rimedio molto rudimentale: coinvolgere il candidato sconfitto alle primarie, Matteo Renzi in degli scampoli di propaganda nelle regioni in bilico per il Senato, quando il calo del Partito Democratico nei sondaggi iniziava a farsi marcato, confidando di recuperare quei milioni di italiani (potenzialmente) ex berlusconiani, calamitati dalla figura del sindaco di FirenzeTroppo poco e troppo furbo. Nessuna proprietà transitiva poteva garantire che i voti raccolti personalmente dal giovane rottamatore finissero in blocco all’anziano segretario.

Tuttavia, quel poco di attivo che ha potuto portare il rottamatore in termini di speranza di un change fatto di riforme e di stabilità di governo nell’Italia Giusta, è stato dilapidato nelle esternazioni quotidiane sulle alleanza post-elettorali: l’ombelico del Pd è finito per diventare il dibattito Monti sì, Monti no; Ingroia sì, Ingroia no. Gli italiani da nord a sud hanno cominciato a dubitare della capacità di Bersani di vincere nettamente e di attuare un programma di riforme una volta a palazzo Chigi. L’elettorato si è attrezzato di conseguenza muovendosi verso la protesta di Grillo e facendo ricorso al suo bene rifugio: il voto identitario, quello per sub-culture. Sul tema è consigliabile la lettura di Ilvo Diamanti “Gramsci, Manzoni e mia suocera” che risponde ad un quesito cruciale: perché la Lega Nord o il Pdl portano a casa ancora milioni di voti a fronte di fallimenti sul federalismo promesso dall’una e sulla rivoluzione liberale sbandierata dal 1994 al 2008 dal secondo? La risposta suggerita è che si comportano come sindacati: uno li sceglie per portare a Roma delle istanze, per quanto irrealizzabili. Ovviamente questo schema si configura finché una forza di alternativa non proponga un programma solido di cambiamento. Bersani non l’ha offerto e il suo elettorato si è ridotto alla sub-cultura rossa. (L’errore di target si può attribuire a parti inverse pure a Renzi, giusto per confutare l’aura di uomo dell’uomo dal sicuro successo comunicativo, che aveva puntato al voto dei moderati alle primarie quando c’era da fare incetta dei voti di sinistra più tradizionale).

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Per lasciare sul terreno fra i 10 e i 15 punti percentuali in così poco tempo questi errori potevano solo rendere più fertile il terreno, ma fra una metafora e l’altra il ribattezzato “smacchiatore” è riuscito a piantare due semi adatti ad una rapida maturazione. Nel nome della “realtà” contrapposta ai “cieli azzurri” ha lasciato che sedimentasse la promessa berlusconiana del rimborso dell’Imu sulla prima casa in contanti – unita all’abolizione dell’imposta –, accorgendosi che c’era da fare un po’ di rumore solo quando è arrivata la lettera a milioni di famiglie. Troppo poco, troppo tardi as usual.

Con lo scandalo Mps, invece, si è sancita l’erosione vera e propria dell’immagine mediatica. Il centrodestra, spalleggiato (in)consapevolemente da buona parte della stampa ha unito due termini decisivi con un colpo sul framing degno di Karl Rove dei primi anni 2000: il valore dei Montibond per il salvataggio della banca senese e il valore della prima rata dell’Imu. Attorno a questi 4 miliardi il centrosinistra (e pure i montiani, usciti urticati da questo attacco) è stato chiarissimo: non c’entrano nulla. Peccato che nello smentire questo frame, generalmente i candidati del Pd si siano mossi all’interno di questa cornice e l’abbiano ripetuta: “Non è vero che quei 4 miliardi dell’Imu serviranno per salvare Mps”. E invece nella mente emotiva di ogni elettore si diffondeva sempre di più la convinzione – più sbagliata che giusta sul piano razionale – che le questioni fossero collegate. A beneficio del Pdl e del Movimento 5 Stelle, il cui boom ha cannibalizzato gli ultimi voti rastrellabili a destra, ma soprattutto a sinistra. Se non hanno lavorato male gli spin di Italia Bene Comune, diciamo che erano quanto meno in sciopero. E visto il loro datore di lavoro pro-tempore sono pure da capire.