Sopravvivere a Grillo. Storia (breve) del Partito Democratico

Per vari motivi si era giunti alla decisione di far nascere il Partito Democratico.

C’era un motivo legato alla semplificazione del quadro politico e partitico nel suo complesso, in primo luogo. C’era infatti la convinzione che un sistema prettamente bipolare come quello italiano per quanto composto solo da due coalizioni contrapposte tra loro, l’Ulivo e la Casa della Libertà, comprendesse troppe forze politiche piccolo e medie capaci di condizionare in maniera macroscopica l’operato del governo in carica.

Un tema a cui era molto sensibile il centrosinistra che vedeva racchiudere al suo interno una molteplicità di soggetti politici (anche dieci) in grado di rendere quanto mai instabile la propria azione politica. E al tempo stesso c’era la convinzione che una semplificazione dello schema politico a sinistra avrebbe portato a scelte conseguenti anche a destra come in effetti la nascita del Popolo della Libertà sembrava provare.

C’era un motivo legato alla vicenda della sinistra italiana, in quanto l’intuizione politica dell’Ulivo e quell’unione dei movimenti riformisti, indipendentemente dall’estrazione culturale e dall’appartenenza a quel o a quell’altro partito della prima Repubblica, per molti doveva avere come sbocco quella del “partito unico del centrosinistra”. A sua volta esito e risoluzione finale di quel “bipartitismo imperfetto” o “Un’aspirazione che tende a delinearsi nell’estate del 2003 quando si parla ancora vagamente di “soggetto politico riformista” o addirittura “partito blairiano”, e che subisce una notevole accelerazione a seguito del colloquio Prodi-D’Alema alla fine dell’agosto di quello stesso anno. Un’accelerazione che porta i partiti del centrosinistra allo scoperto evidenziando chi era realmente interessato ad un progetto di questo tipo (Ds, col correntone contrario, Margherita, coi popolari scettici, Sdi e Mre) fino ad arrivare alla lista “Uniti nell’Ulivo” alle europee 2004, lista anticipatrice, per quanto più ampia, della nascita del Pd nel 2007.

C’era un motivo di carattere politico-culturale, che partiva dal presupposto che occorresse oltre ad un’evoluzione delle forme anche una sorta di evoluzione del pensiero. Per rendere quell’ancora vago “pensiero politico riformista” in grado di essere cittadino di un mondo sempre più multipolare, interdipendente e dove i processi globali, essendo tali, tendono a sfuggire alla dinamiche tipiche dello stato-nazione e a maggior ragione della casacche politiche novecentesche. E al tempo stesso la profondo convinzione che fosse necessaria un’evoluzione della sinistra italiana in grado di non essere pià soltanto il “braccio secolare” della trincia del lavoro, ma anzi la parte politica di tutti i cittadini del paese. E in grado di allargare il suo campo d’azione anche alla tematiche dei nuovo diritti, come quelli legati alla cittadinanza o ai diritti civili in senso lato.

In uno schema europeo che vedeva contrapposti da sempre, da qui il particolarismo italiano, le forze politiche socialiste e socialdemocratiche a quelle popolari e in uno scenario italiano che vedeva i Ds, referente italiano dei socialisti europeo, assolutamente non autosufficiente dal punto di vista elettorale, c’era l’ambizione di una grande contaminazione di idee. Un abbraccio della sinistra nei confronti della migliore cultura liberaldemocratica europea, cristiano-sociale e di impianto ecologista.

Una mossa in grado ridare ossigeno a tutto uno schieramento italiano ed europeizzare ulteriormente l’Italia all’insegna di una democrazia matura dell’alternanza, in cui da una parte risiedono le forze della conservazione e dall’altra quelle del progresso.

Con le ultime elezioni politiche, quelle della “maturità del Pd”, e soprattutto con il suo complesso risultato gran parte delle motivazioni tendono ad essere viste in una diversa ottica.

La semplificazione del sistema politica italiano non sembra più un obiettivo praticabile: la presenza di quattro poli con oltre il 10% porta ad elaborare difficili soluzioni politiche per raggiungere la governabilità. Al tempo stesso il notevole calo di voti delle due formazioni principali del paese, centrosinistra e centrodestra, e il ritorno della proliferazione di liste e partiti nella coalizione berlusconiana pare aver disatteso quell’obiettivo prefissato.

La vicenda legata alla peculiarità della sinistra italiana solo in parte sembra aver trovato seguito. Di fronte al pluralismo delle culture politiche del’Ulivo il Pd negli ultimi anni sembra assumere tendenze, atteggiamenti e riferimenti culturali tipiche di determinate e specifiche culture politiche.

Portando il Pd a rifugiarsi in un ottica strettamente identitaria, capace di farlo apparire solo come “parte” della grande storia che dovrebbe rappresentare.

In questo modo tra l’altro non è vero che il Pd, essendo più piccolo ma omogeneo, rischia di subire meno frizioni e meno tendenze divisorie al suo interno. Anzi. Molto spesso in politica le ferite e le rotture più difficili da rimarginare non sono quelle sulla politica o sui temi, ma quelle “componentistiche” all’interno di una stessa famiglia.

Infine anche l’aspetto politico-culturale di un graduale superamento dell’esperienza socialdemocratica, per giungere ad un riformismo del nuovo secoli, sembra essere sfumata.

E paradossalmente è proprio il voto del 24 e 25 febbraio ci da’ la prova di ciò con un calo drastico dei due poli principali e un aumento vertiginoso di una forza antisistema.

Quelle stesse dinamiche che altrove in Europa (Olanda, Lussemburgo, Austria) hanno portato a governi di coalizione tra forze che politiche avverse ed eterogenee proprio per evitare di stringere patti con partiti antisistema.

E’ un caso poco italiano, perché è quanto mai più difficile in Italia rafforzarsi con una destra come quella berlusconiana e perché il Movimento Cinque Stelle non ha quelle caratteristiche nettamente anti-sistema e anti-costituzionali che hanno altri movimenti di protesta in giro per il continente.

Ma questa situazione di stallo che si stava registrando a livello europeo rendeva manifesta la mancata autosufficienza delle forze socialdemocratiche e la necessità di un passaggio ulteriore.

L’impossibilità e la grande difficoltà nel varare un governo in Italia testimonia come non mai quanto il recinto e l’elettorato potenziale del Pd tenda a diminuire anziché aumentare.

Se una situazione di questo tipo perdurerà e non si tornerà alle reali motivazioni che hanno spinto tutti ad abbandonare la propria casa per questo nuovo tragitto, il Partito Democratico rischia di ricalcare la parabola del comunismo secondo il laconico aforisma dell’umorista americano Will Rogers: il comunismo è come il proibizionismo, l’idea era buona ma non ha funzionato.