Uscire o non uscire dall’Euro?

Ho sentito spesso parlare tra conoscenti, coetanei, e amici, di default, e di uscita dall’euro. Altrettanto spesso ne ho sentito parlare in termini positivi, vale a dire “piuttosto delle tasse meglio il default, così si levano tutti dai piedi”, oppure “piuttosto di farci tiranneggiare dall’Europa, meglio uscire dall’Euro”, come se Euro e Unione Europea fossero la stessa cosa, e come se un eventuale default dello Stato fosse effettivamente una cosa auspicabile.

C’è anche da dire che molto spesso ne ho sentito parlare mentre ero al bar, e si sa che il contesto del bar permette un comodo podio e una platea accomodante, dove nessuno è portato a ragionare criticamente e tutti si sentono d’accordo, o vogliono sentirsi d’accordo con l’oratore di turno.

Usciti dal bar e tornati a casa però c’è tutto lo spazio necessario per effettuare il ragionamento critico in qualche modo bandito al bar, o ivi affogato nell’aperitivo. Cosa succederebbe quindi, se davvero si prendesse la decisione di uscire dall’Euro, o si configurasse lo scenario di un’insolvenza sovrana?

Cominciamo col dire che i due scenari sono legati molto strettamente: i punti di contatto e le conseguenze di una scelta quasi sicuramente causeranno l’altra, o avranno conseguenze analoghe.

Prendiamo per comodità dunque solo lo scenario di uscita dall’Euro.

In un rigurgito di orgoglio nostalgico e di retorica staraciana, il nostro Paese prende la decisione di uscire dall’Euro sbattendo la porta. Considerato che il tempo in cui potevamo permetterci di essere ammessi senza macchia e senza paura al consesso delle altre Nazioni, o in cui gli Stati Uniti temevano l’ingresso della Regia Marina nel porto di New York dopo i fatti di Sacco e Vanzetti, sono passati, il primo effetto di un’uscita dall’Euro sarebbe il crollo verticale della nostra credibilità internazionale.

Riadottata la lira, la nostra nuova-vecchia moneta si dovrà trovare a competere non più soltanto con Sterlina, Dollaro, Yen, e Yuan, ma anche con l’Euro, isolando di fatto il nostro Paese anche dai suoi principali partner nell’import-export.

Le prime politiche commerciali adottate, molto probabilmente effetto anche di un’impostazione sul consenso interno, si baseranno sull’esportazione massiccia di beni resi competitivi attraverso il prezzo ribassato – il primo risultato della galoppante inflazione interna, generata per riempire di banconote i buchi di bilancio del nostro tessuto industriale.

La competitività delle nostre merci resiste tuttavia letteralmente fino all’esaurimento delle scorte: per la produzione di nuovi beni sarà necessario coinvolgere tutte le risorse impiegate nella filiera (gran parte della quale è internazionalizzata) e in particolare le materie prime che sfuggono al controllo di un governo autarchico e che pure permeano capillarmente tutte le economie – vale a dire i derivati del petrolio.

Fermiamoci un secondo per sottolineare un concetto basilare di economia internazionale: l’inflazione di una valuta ne abbassa il valore internazionale, facendo aumentare di conseguenza la quantità di valuta necessaria per acquistare beni extraterritoriali, cioè di fatto facendone lievitare i costi.

Uno degli effetti immediati dell’uscita dall’Euro sarebbe quindi un aumento vertiginoso dei costi della benzina e della produzione di energia, aggravando alcuni dei problemi più vicini al cittadino medio (pieno e bollette). Tra gli effetti che sono meno vicini al singolo cittadino medio, va annoverato un aumento generale dei costi di produzione in capo alle imprese e del trasporto delle merci su gomma, che nel nostro Paese si rivela ancora essenziale. L’aumento dei costi all’origine si tradurrà inevitabilmente in un aumento dei costi a carico del consumatore, ovvero dei prezzi dei beni. Aggiungiamo quindi, oltre ai numeri in crescita sui tabelloni alle pompe di benzina e sulle bollette nella casella di posta, anche un aumento dei prezzi nei supermercati.

(Per continuare la lettura cliccate su “2”)

 

Nel frattempo, l’inflazione creata immediatamente dopo l’uscita dall’Euro ha un altro effetto, meno visibile ma estremamente importante, sui risparmi dei singoli cittadini. L’inflazione di una valuta non va a toccare il valore nominale dei risparmi (se nel mio conto in banca ho 100, anche dopo l’inflazione continuerò ad avere 100) ma ne uccide il valore reale, attraverso il sopraccitato aumento dei prezzi. Quando prima potevamo permetterci di acquistare una certa quantità di beni con i risparmi di 100, ora ce ne possiamo permettere una minore, forse addirittura insufficiente.

Questo secondo effetto delle politiche inflazionistiche fagocita i risparmi dei singoli cittadini, causando non soltanto quindi un crollo dei consumi, ma anche una fortissima erosione dei potenziali investimenti che i cittadini, direttamente o attraverso le banche, avrebbero potuto effettuare.

La forte diminuzione degli investimenti è un ulteriore taglio all’ossigeno che le imprese necessitano per stare a galla e fronteggiare l’aumento dei costi successivo all’inflazione. Le imprese meno solide sono quindi costrette a chiudere, mentre quelle più solide sono costrette alla riduzione del personale, o finchè possibile alla delocalizzazione. Il risultato è comunque un aumento generalizzato della disoccupazione, che a cascata influirà sul crollo dei consumi (meno stipendi pagati equivalgono a minori consumi, a una contrazione della domanda e quindi dell’offerta che in una simile situazione non può rischiare di sovrapprodurre, in un circolo vizioso fortemente distruttivo). Effetto secondario della grande massa di disoccupati sarà il pesare sugli strumenti di ammortizzazione sociale, e quindi la generazione di ulteriore inflazione, chiudendo il cerchio.

Riassumendo, i risultati dello scenario “Autarchia Monetaria” sono i seguenti:

aumento generalizzato dei prezzi al consumo, tra i più visibili quelli della benzina, delle bollette e dei beni di consumo quotidiano.

Povertà diffusa, generata dalla doppia azione dell’aumento dei prezzi e dell’erosione dei risparmi.

Fortissima disoccupazione, a causa della contrazione del tessuto industriale o del suo trasferimento all’estero.

Fortissima disoccupazione anche all’interno del settore pubblico, in particolare quindi una contrazione e un crollo della qualità nella Sanità pubblica e nell’Istruzione.

Crollo della credibilità internazionale e generale isolamento del Paese.

Basterebbe questo per comprendere che qualsiasi richiamo all’uscita dall’Euro gronda populismo, cioè considera, con tempistiche puramente gastroventrali, gli effimeri vantaggi di una politica e ignora o tace delle pesantissime conseguenze di tale politica. Tuttavia vorrei, come esercizio intellettuale, calcare ulteriormente la mano e descrivere brevemente quali possono essere gli scenari successivi, a partire da quello appena dipinto.

(Per continuare la lettura cliccate su “3”)

 

Il primo, forse quello migliore, è che attirati dall’ormai affossato costo di una manodopera comunque qualificata, gli investitori esteri siano disposti a impegnarsi sul nostro territorio ricostruendo il tessuto industriale perduto (non prima però di aver effettuato riforme che snelliscano le procedure di apertura di nuove attività). Il secondo, il peggiore, è lo scenario da fine Ottocento di un’emigrazione di massa successiva alla distruzione progressiva del tessuto economico. Il terzo ed ultimo è che il Paese si chiuda sempre più su se stesso, in una spirale di assistenzialismo e inflazione galoppante, a patto di imparare a vivere anche nell’autarchia economica e non soltanto monetaria, e di ignorare il gap del tenore di vita tra noi e i nostri cugini d’Oltralpe.

Lo scenario riguardante il Default sovrano non è dissimile: si arriverebbe alle medesime conclusioni, anche se probabilmente con meno passaggi. In caso di default, vale a dire di rifiuto del pagamento del debito, non sarebbero soltanto i nostri creditori esteri a restare a bocca asciutta, ma anche, e soprattutto, quelli interni, che detengono attorno al 60% del nostro debito sovrano.

Per essere espliciti, i nostri creditori interni sono le banche, nella forma duplice di impresa, e di intermediario tra cittadino e Stato. Le banche quindi vedrebbero una grossa fetta del loro bilancio, costituito dai titoli di Stato, vaporizzarsi inesorabilmente. In base alla solidità della singola banca quindi, e al suo grado di “impegno” con il debito sovrano, molte banche potrebbero chiudere, licenziando il personale e distruggendo il denaro dei risparmiatori che non era stato investito (e quindi successivamente distrutto) in titoli di Stato.

Inutile quindi gioire per il colpo assestato al sistema bancario, e specularmente accusare i governi di manifesta connivenza con il potere economico a causa del salvataggio delle banche.

Con il crollo delle banche crolla anche il mercato del credito, e quindi l’ossigeno dato alle imprese. Con poche differenze, e nessuna sostanziale, è possibile ripetere quanto figurato nello scenario di autarchia monetaria.

Diffidate di chi auspica il default, diffidate di chi auspica l’uscita dall’Euro come una magica panacea.

Nel naufragio generale, probabilmente si metterà in salvo camminando sulle vostre teste, mentre voi affogate.

Di Andrea Ricciardi per Rockeconomics