2011: Odissea nella manovra

Ripercorriamo le (tragicomiche) fasi della manovra economica nelle sue mille versioni, che hanno monopolizzato – giustamente – il dibattito politico fin dal mese di luglio e il cui esito avrà un effetto decisivo sulle sorti del nostro Paese

manovra

La politica messa in castigo dall’economia. È forse questa l’immagine che riassume questa interminabile estate da psicanalisi. A fine luglio, l’Italia del bunga bunga e della disoccupazione giovanile al 30%, viene sbranata senza pietà dai mercati finanziari. Di conseguenza, gli Italiani trovano sotto l’ombrellone i compiti per le vacanze: una letterina da Bruxelles, preludio di una manovra economica che farà rimpiangere la famosa “lacrime e sangue” di Giuliano Amato. La Banca Centrale Europea, infatti, si vede costretta a defibrillare un governo in stato confusionale e a dettare l’agenda delle riforme necessarie per tranquillizzare gli investitori. Ma, dopo quasi un mese, lo spread tra i titoli italiani e quelli tedeschi è di nuovo ampiamente sopra i 300 punti, e in Borsa è tornata la paura. È evidente come i suggerimenti europei (che per alcuni aspetti ricordano molto da vicino quelli del Washington Consensus rivolto dal Fondo Monetario Internazionale ai Paesi in crisi negli anni ’80) non siano stati tradotti in azioni concrete e credibili.

La manovra correttiva viene varata in tutta fretta con un decreto legge fissando l’obiettivo del pareggio di bilancio anticipato al 2013, da raggiungere con una correzione dei conti pubblici da 20 miliardi nel 2012 e 25,5 miliardi nel 2013. Uno sforzo notevole, ma che in un’ottica più ampia poteva rappresentare una grande opportunità di rinnovamento attraverso un vasto programma di riforme strutturali. Al contrario, si è rivelata l’ennesima occasione persa, piegata ai troppi compromessi politici che hanno indebolito la portata dei provvedimenti. La manovra, infatti, soffre di tre gravi lacune. In primo luogo, è stato quasi completamente ignorato uno dei capitoli più rilevanti della lettera Trichet-Draghi, ovvero gli interventi di liberalizzazione degli ordini e delle professioni. Il decreto, in merito, è confuso e persino contraddittorio, in quanto all’art.3 si legge: “Fermo restando l’esame di Stato di cui all’art. 33 comma 5 della Costituzione per l’accesso alle professioni regolamentate…”, ma successivamente: “l’accesso alla professione è libero e il suo esercizio è fondato e ordinato sull’autonomia e sull’indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnica, del professionista”. In secondo luogo, per l’opposizione della Lega Nord, non è stata presa in considerazione una definitiva riforma strutturale delle pensioni, un problema che l’Europa da anni ci chiede di affrontare, ma che nessun governo si assume la responsabilità di esaminare con serietà per timore di ricadute elettorali. La terza lacuna, ed è forse la più grave, è la pressoché totale assenza di misure per stimolare la crescita e lo sviluppo che possano controbilanciare gli inevitabili effetti depressivi della maggiore tassazione. Per rincorrere la chimera del pareggio di bilancio, la manovra rischia di diventare una pietra tombale sulla ripresa dei consumi. Infatti, ci si affida agli abituali tagli agli enti locali ed a nuove tasse. Come il “contributo di solidarietà”, che colpisce i redditi medio-alti (ma non le grandi ricchezze sotto forma di patrimonio, né quelle dell’evasione fiscale e del sommerso), e la rimodulazione al 20% della tassa sulle rendite finanziarie, contro la quale erano state erette per anni barricate puramente demagogiche. E i tagli ai costi della politica? Uno specchietto per le allodole. Si interviene a livello locale ma non nazionale. Si stabilisce, infatti, l’accorpamento dei comuni sotto i mille abitanti e l’eliminazione delle province sotto i trecentomila abitanti, ma sono salvi, ad esempio, i ricchi vitalizi degli ex parlamentari.

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Dopo pochi giorni (ma sarebbe più opportuno dire dopo poche ore) inizia il valzer dei dubbi che trova una prima sintesi il 29 agosto. Nel corso di un summit Berlusconi-Bossi, la manovra viene riscritta. Eliminata la norma che prevedeva l’accorpamento dei comuni, l’eliminazione delle province avverrà solo tramite legge costituzionale, congiuntamente al dimezzamento del numero dei parlamentari. Tradotto: tutto per ora resta com’è. Ma come sarà possibile raggiungere in Parlamento i numeri per l’abolizione delle province, se già nei mesi scorsi il provvedimento è stato bocciato con votazione bipartisan? Il contributo di solidarietà viene eliminato e rimane in vigore solo per i dipendenti pubblici (senza carichi familiari), per le pensioni alte e per i parlamentari. Salve le feste laiche (25 aprile, 1 maggio, 2 giugno), che erano state accorpate nella versione originaria del decreto. L’intervento che provoca però le ire dell’opinione pubblica riguarda le pensioni: ai fini del calcolo di anzianità, non si potranno più riscattare il servizio militare o gli anni di università, che verranno comunque computati per il calcolo delle pensioni. Questa norma, oltretutto retroattiva, suscita perplessità in quanto non costituisce né una riforma strutturale né un intervento oneroso in termini di gettito, poiché viene stimato in 500 milioni per il 2013 e di 1 miliardo per il 2014. Secondo le dichiarazioni del governo, questa versione “riveduta e corretta” dovrebbe risultare più equa, ma per i tecnici di Bankitalia i saldi per raggiungere il pareggio di bilancio non tornano più: mancano all’appello 4-5 miliardi di euro.

La vicenda assume i contorni di uno psicodramma quando, il primo settembre, va in scena l’ennesimo ripensamento. Il governo decide l’eliminazione della norma sulle pensioni, scritta appena due giorni prima, adducendo motivi tecnici di dubbia costituzionalità, e conta di coprire il gettito mancante dal recupero dell’evasione fiscale. Tale cifra, ovviamente, non è però quantificabile in anticipo, e non è ancora chiaro quali saranno le misure che concretamente garantiranno l’extra gettito. Tanto che il presidente della BCE, preoccupato, è tornato a farsi sentire, ammonendo l’Italia a fare molta attenzione ai saldi affinché rimangano invariati. Tra norme aggiunte, eliminate, o durate il tempo di una dichiarazione sui giornali, l’incapacità del governo nel redigere una manovra così importante sconfina ormai nel ridicolo.

Ma la sensazione è che questa odissea non sia ancora finita. I continui cambiamenti hanno disorientato i cittadini e spiazzato i mercati, dando l’impressione di un Paese che naviga a vista, ormai privo di una leadership salda e credibile. La manovra è la cartina tornasole di una politica che balbetta anziché agire, sottomessa alle regole della Prima Repubblica, e di un Paese che non riesce a responsabilizzarsi e a far proprio il concetto di “bene comune”. L’Italia finisce dietro la lavagna e forse non avrà più il tempo per sostenere un esame di riparazione.

di Federico Cartelli