Quei pianisti stonati

Se qualcuno avesse letto, quarant’anni fa un titolo di giornale con l’espressione «pianisti in Senato», avrebbe probabilmente pensato alla presenza nelle tribune di un gruppo di virtuosi del pianoforte, venuto per assistere a una seduta oppure – più probabilmente – a un concerto tenuto nella cornice solenne di Palazzo Madama.

(da www.senato.it)

Forse solo i lettori più avvertiti, avessero trovato le virgolette attorno a «pianisti», avrebbero azzardato un’altra spiegazione. Allora come oggi, gli stenografi del Senato usavano per i resoconti delle sedute (fin dal 1880) il metodo Michela e l’omonima macchina, i cui tasti somigliano decisamente a quelli di un piano: una volta il testo era stampato su strisce di carta, oggi le macchine sono collegate a un computer, ma le dita degli addetti continuano a viaggiare con un’agilità che non ha nulla da invidiare a quella di Maurizio Pollini o di Giovanni Allevi.

Nemmeno il lettore più malizioso, tuttavia, avrebbe immaginato che si stesse parlando di altri tasti e, soprattutto, di comportamenti nient’affatto virtuosi. Già, perché i «pianisti» che da ieri hanno ripreso a essere citati da tiggì e stampa – dopo la denuncia del MoVimento 5 Stelle, anche se non comprovata su tutti gli episodi lamentati – sono quei parlamentari che, in mancanza di un collega, si prestano a esprimere il voto anche per lui, allungando il braccio sul banco dell’assente e raggiungendone la pulsantiera, mentre con l’altra mano pigiano diligentemente il tasto del loro voto.

Poco cambia che il deputato o il senatore sia fuori dall’aula perché parlava con un ospite, stava mangiando qualcosa alla buvette (o, magari, era ai servizi per svolgere «funzioni non delegabili» per dirla con Andreotti): probabilmente si sentirà più tranquillo se potrà contare su un collega che sbrighi al posto suo l’incombenza del voto. Di più questo collega non potrebbe fare (anche perché le mani le ha finite), ma soprattutto dovrebbe astenersi anche da quello che già fa. Non varrà in questo caso la previsione dell’articolo 48 (per cui il voto è «personale» e non delegabile), ma dai regolamenti parlamentari risulta chiarissimo che, se le dichiarazioni di voto possono essere collettive, ciascun deputato o senatore esprime comunque personalmente il suo voto: che lo faccia alzando la mano, spostandosi da una parte all’altra dell’aula, compilando una scheda, deponendo nell’urna le tradizionali palline bianca e nera o – appunto – pigiando un tasto, la regola è la stessa.

Pianisti in azione

Chi vota al posto di un collega commette un’irregolarità, tanto più se il comportamento viene ripetuto da più persone: in questo modo si falsa il risultato del voto (anche se il singolo consenso non è in grado di modificare il risultato finale) o magari si fa risultare raggiunto il numero legale dei votanti, quando invece è mancante e la seduta dovrebbe essere sospesa. Il comportamento, tra l’altro, è potenzialmente costoso. Alla Camera, per dire, è previsto che ogni deputato veda “scalati” dalla propria diaria 206,58 euro per ogni giorno in cui non abbia partecipato almeno al 30% delle votazioni effettuate con procedimento elettronico durante la giornata: se la “sostituzione” del votante si ripete più volte, è possibile che ciò sia determinante ai fini del calcolo della diaria.

E pensare che tutto era nato oltre quarant’anni fa per semplificare le cose, non per complicarle. Al Senato vollero il voto elettronico l’11 agosto del 1969: fu il presidente di allora, Amintore Fanfani, ad annunciarlo e a metà luglio dell’anno dopo le pulsantiere furono installate; alla Camera si attese oltre un anno e la grande riforma dei regolamenti parlamentari del 1971 prese atto della novità. «I senatori dispongono di tre pulsanti su ogni seggio, premendo i quali possono votare: sì, no, astenuto – scriveva il 22 luglio 1970 sulla Stampa Alberto Rapisarda – Il sistema è congegnato in modo da permettere ai senatori di votare indifferentemente da ogni seggio». Proprio per questo e per evitare tentazioni furbette, a Montecitorio inizialmente le pulsantiere si attivavano con una chiavetta, per poi passare al sistema della tessera che era in uso fin dall’inizio al Senato. Ognuno aveva la sua scheda personale, per far funzionare la propria tastiera: niente tessera, niente voto.

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Non è facile ricostruire quando a qualcuno dei parlamentari venne in mente per la prima volta di lasciare la propria scheda a un collega, anche solo per farsi coprire un’assenza di pochi minuti (assenza comunque poco giustificata, perché da regolamento il voto elettronico viene annunciato con un congruo anticipo, di norma venti minuti); alla fine del 1990, tuttavia, doveva già essere nota la malapratica, specialmente nei momenti di maggiore tensione in cui ogni assenza in aula poteva essere determinante, di improvvisare «cooperative del voto plurimo» (così le chiama, con ironia caustica, lo studioso di diritto parlamentare Andrea Manzella). Accadde allora l’8 novembre che l’ufficio di presidenza di Montecitorio ordinò ai commessi di ritirare subito tessere pericolosamente abbandonate sui banchi o “sbadatamente” lasciate inserite nella pulsantiera senza che il titolare fosse al suo posto; alla fine del decennio si minacciarono sanzioni ed espulsioni per i parlamentari “colti sul fatto”.

Fotogramma del 2002

Il problema, tuttavia, non fu affatto risolto. Episodi simili se ne verificarono ancora e, a quanto pare, continuano a verificarsi. Particolarmente illuminante, per un confronto con l’attualità, un fotogramma del 25 ottobre 2002, giorno in cui fu approvata la “legge Cirami” a Palazzo Madama. Willer Bordon, allora capogruppo della Margherita, mostrò ventisei fotogrammi tratti da un filmato – che, a onor del vero, risultava «girato da un operatore di una televisione autorizzata» – in cui molti senatori dell’allora maggioranza di centrodestra sarebbero stati colti nell’atto di pigiare anche il pulsante del vicino. «In aula ho contato 110 senatori – denunciò Bordon – ho molti dubbi che ci fosse il numero legale, è stato violato l’articolo 64 della Costituzione». Di votazioni «controllate da presidente, vice presidenti e segretari» parlò subito la Presidenza del Senato, sulla stessa linea il capogruppo Fi a Palazzo Madama, Renato Schifani, convintissimo nel difendere i suoi parlamentari (compreso – anche allora, ma quella volta realmente – Lucio Malan), al punto che tutti i presidenti dei gruppi parlamentari di maggioranza chiesero un giurì d’onore contro Bordon e colleghi.

Proteste ce ne furono allora, come ce ne sono state in questi giorni e – bisogna ammetterlo – sono sacrosante. Il fatto è che i rimedi, allora come oggi, sono ben pochi. Solo il Presidente di assemblea, a norma di regolamento, può annullare l’esito di una votazione se riscontra irregolarità e farla ripetere immediatamente. Se non lo fa, non c’è nulla da fare, se non evitare che altri episodi si ripetano. Alla Camera, ad esempio, dal 2009 il meccanismo del voto si attiva con le impronte digitali e a qualcuno l’innovazione non piacque proprio, al punto che all’inizio di aprile un centinaio di deputati non aveva fornito le proprie “minuzie”: siccome non è obbligatorio farlo, quei deputati possono continuare a votare con il vecchio sistema della tessera e il problema rimane tutto. Altre soluzioni, però, non ci sono.

Persino la Corte costituzionale, con la sentenza n. 379/1996, disse che la giustizia penale non avrebbe potuto procedere contro i parlamentari “pianisti” (per i reati di falso ideologico del pubblico ufficiale in atto pubblico e sostituzione di persona) poiché questo avrebbe leso l’autonomia delle Camere garantita dalla Costituzione: solo i Presidenti delle Camere, dunque, avrebbero potuto giudicare le violazioni del diritto parlamentare ed eventualmente comminare sanzioni. Il giudice costituzionale, peraltro, dovette ammettere che perché l’autonomia delle Camere potesse mantenere la propria legittimazione, il Parlamento avrebbe dovuto porsi il problema della «congruità delle procedure di controllo, l’adeguatezza delle sanzioni regolamentari e la loro pronta applicazione nei casi più gravi di violazione del diritto parlamentare». Tempo ne è passato parecchio, ma il problema è rimasto. E se da una parte è giusto che le regole le rispettino tutti – compresa quella che vieta le riprese in aula se non autorizzate e da parte della stampa – dall’altra non si può transigere sulla correttezza delle decisioni delle aule. Il voto è una cosa seria, che non merita di essere svilito, men che meno da “pianisti” decisamente stonati.