Ineleggibile per (gentile) concessione?

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Non bastavano l’afa di questi giorni e i bollori legati alla decisione della Cassazione sul processo Mediaset (compreso lo stop all’attività delle Camere, poco decoroso dal punto di vista istituzionale). Ad alzare la temperatura provvede ora la discussione sull’ineleggibilità di Silvio Berlusconi – approdata ieri alla Giunta delle elezioni e delle immunità del Senato – e, in particolare, l’ultima puntata, tutta “televisiva”, legata alle concessioni per le emittenti di Mediaset.

Per ricostruire correttamente la vicenda, è bene affidarsi al resoconto sommario della seduta della Giunta di ieri e alle agenzie. Da tempo il MoVimento 5 Stelle e altri soggetti politici ritengono che Berlusconi sia ineleggibile, a norma dell’art. 10, comma 1, n. 1 del testo unico per l’elezione della Camera (d.P.R. n. 361/1957), in base al quale «Non sono eleggibili coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o imprese private risultino vincolati con lo Stato per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica». Nel mirino ci sono – e ci sono state già altre volte – le televisioni del gruppo Mediaset, che fino a pochi anni trasmettevano (sia pure con il distinguo parziale di Retequattro) in base alla concessione ottenuta dallo Stato.

Silvio Berlusconi

Andrea Augello (Pdl), relatore per il Molise – Berlusconi, candidato in tutte le regioni, ha optato per quella circoscrizione – ha ricordato i precedenti in materia, per cui la Camera dal 1994 ha sempre respinto i ricorsi per l’ineleggibilità dell’ex premier: in base a una lettura restrittiva (trattandosi di norma eccezionale), si ritenne che le eventuali concessioni dovessero essere esercitate «in nome proprio», non potendo essere sanzionate le posizioni «riferibili alle società interessate solo a mezzo di rapporti di azionariato, tanto più se si tratta di partecipazioni indirette». Era andata così a Vittorio Cecchi Gori, divenuto senatore quando presiedeva la Cecchi Gori Communication Spa: lui era titolare di azioni della società che, attraverso altri due soggetti intermedi, controllava Beta Television Spa, proprietaria di Videomusic-Tmc2 (che la concessione l’aveva), ma il rapporto Cecchi Gori – Beta Tv era solo indiretto, per cui non si trovava in una situazione di ineleggibilità.

A scatenare la nuova puntata, la richiesta del senatore Pd Felice Casson, per il quale sarebbe stato necessario «acquisire l’atto concessorio relativo alle reti Mediaset, indispensabile al fine di valutare se tale provvedimento rivesta natura di concessione o di autorizzazione» e, già che ci si era, anche la sentenza della Corte di appello di Milano che ha confermato la condanna di Berlusconi per frode fiscale nel processo sui “diritti Mediaset”, per trarre «elementi utili al fine di verificare il ruolo svolto dal senatore Berlusconi rispetto alle aziende in questione». Subito è arrivata la risposta del senatore Pdl Giacomo Caliendo: egli segnalava che l’esercizio delle frequenze tv, dopo l’emanazione del testo unico della radiotelevisione (d.lgs. n. 177/2005), era soggetto solo a un’autorizzazione generale, non specifica, quindi non rientrava nell’ipotesi della norma del ’57.

Mario Giarrusso

Fin qui il resoconto. Stando al racconto del senatore M5S Mario Giarrusso, Casson avrebbe proposto di inviare la Guardia di Finanza alla sede di Mediaset, per cercare e trovare i titoli abilitativi alla trasmissione: lo stesso Giarrusso avrebbe poi aggiunto che, «se non le avessero trovate davvero (cosa poco verosimile) – così il cittadino ha scritto sulla sua pagina Facebook – allora Mediaset sarebbe stata fuorilegge, con tutte le conseguenze del caso per chi esercita una attività senza le prescritte autorizzazioni». Arrivando anche, se del caso, all’oscuramento.

Il vespaio, ovviamente, era prevedibile, anche perché è la prima volta che una situazione di questo tipo (dopo la riforma del 2004-2005 del sistema radio-tv) arriva all’esame delle Camere.

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L’esito, in qualche modo, è prevedibile, ma vale comunque la pena rifletterci sopra, visto che la matassa è intricata e difficile da dipanare.

Berlusconi Jr e Confalonieri

 Fino al 2008 Rti (Reti televisive italiane) era titolare delle concessioni per la trasmissione di Canale 5 e Italia 1, nonché del titolo abilitativo che consentiva a Retequattro di continuare a trasmettere – nell’attesa del passaggio definitivo al digitale terrestre – pur non avendo ottenuto la concessione nel 1999. Dopo la legge n. 101/2008, le licenze legate alle concessioni (e all’autorizzazione speciale di Retequattro) vengono trasformate in autorizzazioni generali, secondo quanto già previsto dal testo unico della radio-tv del 2005: l’abbandono della concessione, va detto, l’aveva chiesto l’Unione europea e l’Italia ha recepito con molto ritardo quella richiesta Ora, Rti è titolare dell’autorizzazione come fornitrice di contenuti e controlla per intero Elettronica industriale, titolare a sua volta dell’autorizzazione generale come operatore di rete; Rti, per parte sua, è controllata per intero da Mediaset, di cui è presidente Fedele Confalonieri e vicepresidente Pier Silvio Berlusconi.

È quasi certo che, nella Giunta di palazzo Madama, si scontreranno due linee opposte. Da una parte, il M5S e altri sosterranno che le autorizzazioni generali riferibili a Mediaset, in quanto rilasciate da una pubblica amministrazione, rientrerebbero in pieno nell’ipotesi prevista dal testo unico del 1957 (considerando probabilmente, per la «notevole entità economica», il valore delle frequenze e magari dell’intero gruppo); spulciando bene tra le norme, potrebbero anche dire che l’autorizzazione generale da operatore di rete comporta «l’osservanza di norme generali o particolari protettive del pubblico interesse» (condizione posta sempre dalla norma già vista), poiché l’Autorità garante per le comunicazioni aveva precisato che «il provvedimento di assegnazione delle radiofrequenze a ciascun operatore di rete è assoggettato ad obblighi, fra gli altri, di efficiente utilizzo dello spettro stesso e di non interferenza».

Dall’altra parte, il Pdl rimarcherà quasi certamente che Silvio Berlusconi non è vincolato ad alcuna concessione o autorizzazione né in nome proprio, né come legale rappresentante (non fa parte di alcun consiglio di amministrazione); in più, ripeterà che le autorizzazioni generali non rientrano tra gli atti previsti dalla norma del 1957, per cui il problema non dovrebbe neanche porsi.

Roberto Speranza

La geografia politica della Giunta è la seguente: 8 membri Pd, 6 Pdl, 4 M5S, un componente a testa per Sel, Scelta civica, Autonomia, Lega Nord e «Grandi Autonomie e Libertà». I numeri per votare l’ineleggibilità di Berlusconi, in teoria, ci sarebbero, basterebbe che Pd e M5S si esprimessero in tal senso: difficile però che accada, a giudicare dalle dichiarazioni di Roberto Speranza, capogruppo Pd a Montecitorio; è facile del resto immaginare che un’eventuale decisione della Giunta contraria a Berlusconi avrebbe come conseguenza quasi immediata la caduta del governo.

Volendo esercitare un rispetto formale delle regole, è probabile che non ci siano gli estremi per l’ineleggibilità, soprattutto dal lato soggettivo: Silvio Berlusconi, dunque, non risulterebbe vincolato a un’autorizzazione in nome proprio o come legale rappresentante. A chi volesse far notare, senza troppa fatica, che le norme in vigore hanno l’effetto assurdo (e un po’ ipocrita) di non consentire la candidatura di Confalonieri, ma di permettere quella di Berlusconi padre, nonostante la presenza di ben due figli (Pier Silvio e Marina) nel cda di Mediaset, sarebbe difficile replicare. A meno di voler dire: è la legge, bellezza, e tu non puoi farci niente. Se non hai i numeri e la voglia per cambiarla.