E se il Pdl se ne andasse davvero?

Piccola premessa necessaria: le righe che seguono potrebbero essere un mero esercizio di fantascienza costituzionale e parlamentare.

Già, perché il disegno in base al quale deputati e senatori del Pdl potrebbero dimettersi in massa dal loro incarico è un’eventualità tanto eclatante quanto improbabile.

Per intendersi, somiglia molto di più all’ennesimo ricatto (piuttosto violento, costituzionalmente parlando) indirizzato ai temporanei alleati di governo, con la speranza di ottenere una qualche forma (altrettanto improbabile) di “agibilità politica” per Silvio Berlusconi. Insomma, minacciano di “schiodarsi” dal seggio, senza avere la minima intenzione di farlo.

Eppure, vale la pena di investire almeno un po’ di tempo a chiedersi cosa potrebbe accadere se veramente i parlamentari del Pdl decidessero di “rimettere il mandato parlamentare”, dunque di dimettersi tutti quanti.

Ragioni per non farlo, in realtà, ce ne sarebbero da vendere. A partire da quelle di opportunità costituzionale. Infatti, non sarebbe indifferente il modo in cui quelle dimissioni potrebbero avvenire. In una situazione simile, sono almeno due gli elementi che potrebbero far pensare a una violazione dell’articolo 67 della Costituzione. Quello che vieta il vincolo di mandato, quello che a Beppe Grillo proprio non va.

Certamente, se venisse utilizzata la formula di una lettera preconfezionata (anche dagli stessi parlamentari, anche in modo leggermente diverso l’una dalle altre) e si apponesse la data solo dopo l’esito del voto della Giunta o della Camera, si sarebbe in presenza di una sorta di vincolo di mandato. Le dimissioni sarebbero infatti sottoposte a un’inaccettabile “condizione sospensiva” e, presumibilmente, a una scelta “esterna” rispetto al singolo parlamentare (scelta del capogruppo o della guida del partito).

Allo stesso tempo, anche la pratica di dimissioni “in blocco” presenterebbe qualche problema: anche se venissero scaglionate nel tempo, si ricadrebbe comunque nell’ipotesi di dimissioni collettive. Dimissioni che l’aula può tranquillamente respingere. Va ricordato infatti che il mandato parlamentare non è nella disponibilità dell’eletto, non può farne ciò che vuole: qualora un parlamentare intenda dimettersi, lo fa con una lettera in cui illustra le ragioni del suo gesto, ma tocca all’aula – dopo un’apposita discussione – pronunciarsi sulla richiesta, potendola certamente disattendere.

In una delle sue prime sedute (nel 1948), la Camera dovette affrontare un’ipotesi simile, con tre deputati del gruppo comunista che presentarono lettere di dimissioni e l’aula respinse la prima di esse (quella di Nella Marcellino Colombi, le altre furono ritirate): il deputato diccì Francesco M. Dominedò sostenne che si trattava di dimissioni collettive, Palmiro Togliatti negò (e il presidente Giovanni Gronchi gli diede ragione), ma i deputati nel loro complesso votarono contro le dimissioni, un po’ per cavalleria, un po’ perché l’idea delle dimissioni collettive doveva avere trovato credito tra più di un parlamentare.

Andò meglio ai radicali che tra la fine del 1978 e l’inizio del 1979 si dimisero in successione (prima Adele Faccio, poi Emma Bonino e Marco Pannella): testimoniavano che la politica non era un mestiere, ma in realtà era noto l’accordo di inizio legislatura in base al quale gli eletti del Partito radicale si sarebbero dimessi dopo due anni per lasciare il posto ai primi non eletti. La “staffetta” non piacque a Oscar Luigi Scalfaro: “La elezione a turno non è prevista! Mi chiedo se la Costituzione possa essere così lasciata all’iniziativa privata nelle sue interpretazioni”. La pensava come lui Aldo Bozzi, ma le dimissioni furono accettate ugualmente.

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Nel caso del Pdl, sulla natura collettiva dell’atto (anche viste le sue “dimensioni numeriche”) non ci sarebbero dubbi.

L’unico stratagemma che potrebbe rendere ammissibili queste dimissioni sarebbe il considerarle non come frutto di una decisione del gruppo, magari su consiglio o richiesta del presidente, ma come gesto spontaneo di solidarietà a Silvio Berlusconi.

Certo, rispetto ai radicali il Pdl può contare sul fatto che non c’erano le preferenze, per cui gli elettori non hanno votato direttamente quel parlamentare e le dimissioni non violano nessuna scelta diretta dei votanti, ma questo – come è noto – è conseguenza di un’altra stortura grave, figlia del Porcellum.

In ogni caso, dovrebbe comunque intervenire il voto dell’aula di Camera e Senato su ciascuna delle dimissioni: non ci sono dubbi sul fatto che, qualora ciò avvenisse, il voto si svolgerebbe a scrutinio segreto con procedimento elettronico (ormai la prassi è consolidata e rientra con certezza, a differenza del voto sulla convalida delle elezioni, tra i voti sulle persone che non possono avere uno scrutinio palese).

E’ dunque l’assemblea a decidere nel segreto cosa fare delle dimissioni di deputati e senatori, per cui i parlamentari Pdl sono sostanzialmente nelle mani dei loro colleghi del Pd e del M5S. Per ragioni di numeri, toccherebbe a loro stabilire se “punire” i fedelissimi di Berlusconi, costringendoli a non lasciare i loro scranni (e attirandosi le critiche di chi li accuserebbe di non aver mandato a casa gli avversari per ragioni di comodo), oppure “accontentarli”, accettando le loro dimissioni e liberandosi d’un colpo delle prime linee di parlamentari berlusconiani (che griderebbero contro l’atteggiamento liberticida dei loro estromissori).

E’ facile prevedere che, in caso di discussione e voto sulle dimissioni, i lavori delle aule sarebbero lungamente paralizzati. Così come è facile immaginare la baraonda anche solo amministrativa e tecnica che si creerebbe: una selva di assistenti parlamentari piantati in Nasso, nuovi entranti che potrebbero volere collaboratori diversi, commissioni da integrare in gran parte (e voti per la presidenza e le altre cariche interne da rifare). Un polverone incredibile, insomma, che durerebbe giorni.

L’ingresso dei parlamentari subentranti, tra l’altro, non sanerebbe necessariamente i problemi. Perché, a ben guardare, non sarebbe cambiato nulla rispetto a prima. Sarebbero mutate le teste, ma i numeri sarebbero gli stessi di prima. E non ci sarebbe nessuno scioglimento anticipato delle Camere. Un’ipotesi che si potrebbe avere, al limite, solo se i nuovi entrati decidessero di dimettersi subito dopo la proclamazione, procedendo così fino all’esaurimento delle liste delle varie circoscrizioni. Lasciando dunque soltanto 532 parlamentari alla Camera e 216 al Senato (o rispettivamente 514 e 199, se anche la Lega dovesse fare le valigie).

In quel caso, in linea solo teorica, il Capo dello Stato dovrebbe prendere atto che la composizione delle Camere non rispecchia più quella dell’elettorato e finirebbe per sciogliere le assemblee. Impossibile non notare, però, che quelle “dimissioni successive” non avrebbero proprio nulla di volontario e violerebbero alla radice l’art. 67 della Costituzione, senza contare che l’aula ben potrebbe respingerle. Eppoi non si può sottovalutare la situazione dei singoli neoparlamentari, inseriti in lista con la certezza che mai sarebbero stati eletti: sarebbero tutti disposti a rifiutare a cuor leggero un seggio (con relativo stipendio) piovuto dal cielo?