Legge elettorale: Una riforma impossibile?

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Nonostante la crisi economico-finanziaria e i provvedimenti del governo tecnico, la legge elettorale rimane un argomento di strettissima attualità.
E’ infatti l’approvazione di una legge elettorale il vero nodo di svolta di questa delicatissima fase politica, la campanella che libera tutti dal “senso di responsabilità” (reale o strumentale poco importa) che pervade l’attuale maggioranza parlamentare.
Naturalmente le proposte di un nuovo sistema elettorale fioccano, specialmente a sinistra attraverso articolate formule  ispirate a più o meno tutti i sistemi elettorali europei ed extraeuropei.

In questo confuso dibattito si perdono di vista alcuni principi che informano, o che dovrebbero informare, l’intera ingegneria istituzionale e quindi anche le leggi elettorali.
In primo luogo da molti, troppi anni si attribuiscono ai sistemi elettorali capacità salvifiche per democrazie in crisi commettendo un primo e gravissimo errore di superficialità.
Se approvata, questa risulterebbe la terza riforma elettorale in meno di venti anni. Un “frequenza riformatrice” che non permette il reale dispiegamento degli effetti delle leggi elettorali e di conseguenza impedisce precise e puntuali analisi sul passato.

Allo stesso tempo, prevedere gli effetti di un sistema elettorale è cosa assai complessa considerato l’ intricato gioco determinato dagli inevitabili processi di apprendimento che interessano le elites elettorali e i cittadini-elettori.
E’ più utile quindi fare uno (o due passi indietro), lasciando perdere le formule per tornare alla teoria.
La discussione infatti, alla luce del nuovo scenario politico, non può riguardare semplicemente un meccanismo che traduca in seggi i voti espressi dai cittadini.
Siamo infatti difronte ad un bivio (per la verità già noto nel 1993) riassumibile nella classica dicotomia: proporzionale-rappresentatività e maggioritario-governabilità. Purtroppo, in un certo senso siamo tornati indietro.
La presenza di un terzo polo che tutti i sondaggi accreditano oltre il 10% rimette in discussione la natura bipolare del nuovo sistema partitico nato alla fine della Prima Repubblica. Il nodo del problema è quindi questo e il dibattito sulle formule elettorali è soltanto un opaco riflesso dell’infinita querelle che oppone proporzionalisti a maggioritaristi.

Difficile sapere chi vincerà questa battaglia ma esistono senz’altro alcuni aspetti noti che è utile considerare.

In primo luogo, a vantaggio dei proporzionalisti, c’è l’effetto Monti ossia la nascita di un governo tecnico che sta ottenendo risultati importanti e che risulterebbe inconcepibile in un sistema maggioritario maturo (quanti esempi di governi tecnici esistono nelle altre democrazie occidentali?). Per Casini & co Monti rappresenta una finestra su un futuro di governi modello Prima Repubblica ossia nati in Parlamento e non nelle urne.
Inoltre l’estrema vivacità che caratterizza le ali estreme dello schieramento (Sel, Idv e Lega) mette in difficoltà i partiti maggiori che potrebbero cedere alla tentazione di correre da soli alle elezioni per poi allearsi (di volta in volta a seconda delle necessità) con un polo di centro accomodante e dialogante.

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Esistono però elementi oggettivi che suggeriscono l’estrema difficoltà nell’arrestare il processo bipolare partito nel 1994. Le “decisività” del voto, che consente agli elettori di conoscere anticipatamente rispetto alla formazione del Parlamento le coalizioni che si candidano a governare,  appare una strada senza ritorno. La struttura bipolare, favorita anche dalla spettacolarizzazione della politica e dalla personalizzazione dello scontro, è un aspetto fortemente impresso nella coscienza politica collettiva (specialmente tra i nati dopo l’89). Si potrebbe addirittura sostenere che gli elettori italiani, favoriti anche dall’esperienza delle elezioni amministrative, hanno sviluppato una certa confidenza con il concetto di accountability. Difficilmente i partiti potranno ignorare tutto ciò senza scontare grandissimi costi elettorali.

Inoltre gli elettori del Terzo polo hanno fatto capire a più riprese che la propria area d’appartenenza rimane quella del centro-destra (le elezioni regionali in tal senso hanno rappresentato un chiaro  messaggio per l’ Udc) per cui alleanze, se pur di comodo, con il Pd non risulterebbero produttive.
Non rimane che aspettare e osservare  quali dei due scenari prenderà corpo: un sistema proporzionale con alleanze post-elettorali, che veda come grande protagonista il centro attraverso l’alternarsi di governi di centro-destra e centro-sinistra con Pd e Pdl che si passano il testimone assieme all’onnipresente Casini.
Oppure un sistema compiutamente bipolare (e non bipartitico) che continui  a prevedere due coalizioni catch-all ma sempre meno eterogenee grazie a percorsi politici programmatici in grado di ridurre la fratture tra alleati. Magari a favorire tale scenario potrebbe giocare l’uscita di scena di Berlusconi che renderebbe possibile il ricompattamento dell’Udc con il centro-destra a vantaggio del bipolarismo.

Ad oggi possiamo solo registrare l’anomalia italiana rappresentata dal centro che non esiste come spazio politico in nessun altro paese europeo ma che in Italia dal 1948 ad oggi gioca un ruolo cruciale.