La strada stretta di una sinistra di governo. Terza parte. Le forze politiche.

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Dopo aver proposto un’analisi della situazione internazionale ed italiana (http://www.termometropolitico.it/21934_la-strada-stretta-di-una-sinistra-di-governo-prima-parte.html) e le proposte (http://www.termometropolitico.it/21942_la-strada-stretta-di-una-sinistra-di-governo-le-proposte.html) di un possibile schieramento di sinistra, veniamo ora al punto fondamentale: quali forze politiche, quale elettorato, quali interessi potrebbero riconoscersi in un tale programma.

L’analisi non può che partire dal principale partito del centrosinistra: il Partito Democratico. A prima vista può sembrare che questo si situi in una posizione molto lontana dalla visione delle cose accennata negli articoli precedenti: ha sostenuto il governo Monti, ha votato a favore dell’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione, la riforma del lavoro, quella delle pensioni.

Tuttavia il PD non può essere considerato come un monolite: al suo interno esistono aree e sensibilità molto diverse, e in occasione di ognuno dei provvedimenti sopra citati c’è stata un’accesa discussione interna. La segreteria Bersani ha effettuato un lungo lavoro di revisione di quelle che erano le parole d’ordine portate avanti da Veltroni (la rappresentanza di tutti gli interessi, il partito liquido, un’identità concepita come in radicale discontinuità rispetto alle storie e alle tradizioni delle culture e dei partiti che andavano a confluire nel PD). La crisi è stata l’occasione di questo lavoro di ripensamento. La crisi è stata concepita come crisi del pensiero neoliberista e della fiducia nella capacità dei mercati di autoregolarsi. E’ certo vero che le ricette del pensiero liberista sono state applicate in Italia con molti limiti e in maniera parziale e selettiva. E’ però anche vero che l’assunzione di un determinato impianto ideologico ha portato a una deresponsabilizzazione della politica, che ne ha tratto pretesto per non assumersi l’incarico di governare i processi. Dalla riflessione che si è sviluppata è scaturita la consapevolezza della necessità di un ritorno in primo piano della politica, che deve riprendere il suo ruolo regolatore nei confronti dell’economia, ovviamente migliorando contemporaneamente il proprio livello rispetto al decadimento dell’ultimo trentennio. Per fare questo la politica dovrebbe recuperare il proprio radicamento nei territori, la propria organizzazione, rivalutare il rapporto con i corpi intermedi e a livello di governo riscoprire il concetto di politica economica e, se necessario, anche quello di intervento pubblico.

All’interno del PD chi più convintamente ha portato avanti quest’opera di rinnovamento, che corrispondeva peraltro a un movimento di pensiero diffuso a livello internazionale, è stato un cospicuo gruppo di giovani dirigenti tra i quali i più noti sono Stefano Fassina e Matteo Orfini. Espressione di questa tendenza politica sono il gruppo T/Q (Trenta-quarantenni) e l’associazione Rifare l’Italia. Questi portano avanti un’idea di “rinnovamento” del partito e della società alternativa rispetto a quella portata avanti da Matteo Renzi. Nel corso della segreteria Bersani questo gruppo, a cui è stato dato uno spazio anche a livello di incarichi nel partito, ha portato avanti un lavoro di riflessione notevole su diverse testate on-line e siti internet, che ha trovato alcune consonanze nelle idee portate avanti dal quotidiano l’Unità. Questi punti di vista trovano un significativo consenso nella base del partito. Rispetto ai dirigenti c’è invece un atteggiamento più complesso: al riconoscimento di alcuni meriti si affianca una critica che viene estesa anche ai governi Prodi, D’Alema e Amato, di sostanziale subalternità al pensiero liberista e di eccessiva condiscendenza con l’establishment.

Questo gruppo, se prevalesse all’interno del PD, rappresenterebbe senz’altro il fulcro per una proposta di sinistra di governo. Ad esso si contrappongono, sempre dentro il PD correnti che invece insistono sulla necessità di impostare la nuova proposta di governo in continuità con il governo Monti. Il principale esponente di questa tendenza è Enrico Letta, a cui si aggiungono personaggi come Walter Veltroni, Pietro Ichino, Enrico Morando e altri.

La posizione di Bersani in questo quadro è quella di chi cerca un punto di mediazione, punto di mediazione che però potrà essere più o meno avanzato a seconda di come si svilupperà la lotta tra le posizioni in campo.

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Per quanto riguarda le alleanze, l’unione con l’UDC non è esclusa da nessuno nel caso questa sia necessaria a formare una maggioranza stabile. Quello che cambia è la valutazione del significato. Per i filomontiani si tratterebbe di un’alleanza organica, di un asse forte di governo concepito come la continuazione dell’esperienza del governo tecnico (e l’alleanza si potrebbe persino estendere a FLI e a parti del PDL). Per i fautori di una sinistra di governo l’alleanza con l’UDC andrebbe invece concepita come un accordo tra forze ben distinte vincolato ad un programma ben preciso, finalizzato ad effettuare alcune riforme fondamentali in accordo con la concezione di una legislatura “costituente” portata avanti da Pierluigi Bersani. Comunque, tra le due alleanze, quella con SEL e quella con l’UDC, la bilancia penderebbe nettamente verso la prima.

SEL da parte sua dovrebbe continuare a insistere nella critica del governo Monti, evitando di farsi assorbire nel ruolo di sinistra interna sostanzialmente inoffensiva al quale vorrebbero relegarla i sostenitori di Monti.

Più complesso è il discorso per quanto riguarda l‘Italia dei Valori, che inizialmente era stata inclusa nella coalizione con la ormai celebre “foto di Vasto”. La questione per quanto riguarda l’IDV è problematica perché nel rapporto con questa forza la questione sociale si intreccia alla questione del giustizialismo. Di Pietro non aveva mai insistito particolarmente in passato sulla questione sociale e sulla critica al liberismo. Si è attestato più di recente su questi temi a causa dell’esaurimento del ciclo berlusconiano, che faceva venir meno l’antiberlusconismo, una delle principali ragioni sociali del suo movimento. In seguito alla caduta di Berlusconi si è avviata all’interno della sinistra un riflessione sul tema del giustizialismo che, almeno da Mani Pulite era stato sentito come rilevante da una parte importante dell’elettorato. Si è avviata un’autocritica, che si è esplicata, ad esempio, nella divergenza di opinioni tra Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro da una parte e Gustavo Zagrebelskij dall’altra all’interno di Repubblica e nella scissione del giornale “Pubblico” dal “Fatto Quotidiano”.

Al di là delle valutazioni che si possono dare sul tema del giustizialismo, questo cambio di sensibilità testimonia il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo. La crisi richiede che la sinistra rimetta al centro della sua azione e del suo patrimonio ideale la riflessione sulle questioni sociali ed economiche, sul tema dell’uguaglianza e del welfare. Queste sono le tematiche che vanno messe al centro dell’azione politica.

E’ per questo che, se l’esclusione di Di Pietro può servire a chiarire le ambiguità sul tema del giustizialismo, questo non deve significare una chiusura verso parte dell’elettorato che ha votato per queste forze, che ha invece a cuore la questione della giustizia sociale e porta avanti una critica verso l’assetto presente dell’Europa. Se a queste istanze non viene data una prospettiva politica concreta, il rischio è che si saldino con quel sempre più vasto bacino del populismo e del ribellismo anti-sistema che si va formando. Si formerebbe così una contrapposizione tra chi è “pro” e “contro” le istituzioni che chiuderebbe qualunque possibilità per una politica orientata al cambiamento.

(continua)