La partita dei simboli elettorali: come finirà?

simboli elettorali

Alla fine si è toccato quota 219. Ad essere precisi, 215 e 4 varianti (linguistiche o per la circoscrizione Estero). Il numero di simboli elettorali depositati presso il Ministero dell’Interno ha colpito chi pensava che, in risposta all’allarme per l’antipolitica, più di qualcuno avrebbe rinunciato a mettersi in coda davanti al Viminale, se non altro per comunicare un messaggio di sobrietà agli elettori.

 

Occasione mancata, ovviamente. Il risultato, per carità, è lontano dal record del 1994 – grazie ai meccanismi del Mattarellum nella quota maggioritaria, si era sfondata quota 300, senza contare i segni ricusati – ma è un numero ben più alto (del 15%, annotano le agenzie) rispetto ai 153 simboli ammessi alle elezioni politiche del 2008; il confronto è scioccante se si prende come termine di paragone il numero di partiti rappresentati in Parlamento a inizio legislatura (solo 5, come si sa).

Ora tocca ai funzionari del Viminale esprimersi sull’ammissibilità dei simboli elettorali. Una grana non invidiabile, e non solo per il numero di contrassegni da vagliare. Ci sono da risolvere le questioni legati ai simboli “clonati”, ma non mancano altri casi da esaminare con attenzione. Per la maggior parte dei simboli elettorali, beninteso, non ci saranno problemi, neanche per quelli che – non essendo corredati da adeguata documentazione – saranno considerati senza effetto e non finiranno sulle schede: accade di solito coi simboli dei partiti che hanno concluso la loro attività politica (è il caso, a questo giro, dei Ds) o dei gruppi che non vogliono presentare liste autonome (come Idv, Pdci, Prc, Verdi), ma depositano comunque l’emblema per evitare che altri ne possano fare uso.

Nei casi Grillo e Ingroia, è quasi certo che il Ministero chieda ai depositanti dei simboli “copiati” (Andrea Foti per il M5S e Massimiliano Loda per Rivoluzione civile) di sostituire i propri emblemi, pur presentati prima di quelli più noti. È vero, l’articolo 14, comma 2 del testo unico per l’elezione della Camera fissa la regola prior in tempore potior in iure (per cui “chi prima arriva meglio alloggia”), ma è facile che il Viminale applichi il comma 5, per il quale non è ammissibile un contrassegno presentato per precluderne l’uso agli aventi diritto: il diritto, cioè, di scegliere il proprio simbolo e mantenere l’uso dell’emblema con cui si è acquisita notorietà, pur essendo la prima partecipazione alle elezioni politiche. Vale per il Movimento 5 Stelle di Grillo, che dal 2009 partecipa alle elezioni locali e dal 2010 lo fa col simbolo depositato venerdì (non conta invece che l’emblema sia registrato come marchio, ciò non ha valore su piano elettorale); vale per il cartello di Ingroia, presentatosi agli elettori e “passato” sui media con quell’emblema. Le poche norme dettate per i contrassegni tutelano l’affidamento dell’elettore – lo ricorda la giurisprudenza – e ciò non si otterrebbe chiedendo a Grillo e Ingroia di modificare di molto i loro simboli elettorali.

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Quanto al M5S, avrà tutela nei confronti di almeno altri due simboli elettorali presentati in seguito – 5ª Fabiola Stella e Voto di protesta – che probabilmente dovranno essere maggiormente differenziati (magari togliendo nel secondo caso la dicitura BEPPEciRILLO.it, riferita a un dominio non esistente); non sarebbe confondibile stavolta, invece, il contrassegno di No Euro – Lista del grillo parlante (modificato nel 2008, quando Beppe Grillo ancora non era vicino alla politica), poiché già ora riporta la dicitura «Grilli» ammessa nella consultazione precedente. Non è un simbolo strettamente “clonato” – in questa tornata non è presente l’emblema di An – ma non dovrebbe essere ammesso il Msi-Dn di Gaetano Saya, non potendo dimostrare la continuità con il partito di cui imita quasi servilmente l’emblema.

La norma già vista sul divieto di impedire surrettiziamente l’uso di un simbolo all’avente diritto dovrebbe tutelare – e con più precisione, poiché ci si riferisce all’uso di un cognome – anche i simboli elettorali legati a Mario Monti, che aveva pubblicizzato il proprio simbolo e dev’essere messo in condizione di usarlo. L’emblema presentato prima dei suoi non è graficamente confondibile, non si può impedire a Samuele Monti di usare il proprio patronimico nel simbolo, ma gli si potrà chiedere di inserire pure il nome, per chiarezza. Desta poi perplessità la scelta della Lega Nord di inserire nell’emblema la “pulce” di 3L, il partito di Tremonti, indicando questi come «TreMonti»: si avrebbe una confondibilità, che forse non sarà contestata perché il dettaglio sulla scheda sarà quasi invisibile.

Più incerto il caso dei “pirati”: l’ordine di deposito tutelerebbe il Partito pirata di Marco Marsili (quello col jolly rodger), già presentatosi alle elezioni amministrative con quel logo. Nella bacheca del Viminale tuttavia sono finiti anche un non meglio precisato Movimento pirata e il Partito pirata che rivendica la propria originalità (è stato fondato nel 2006) e dalla sua ha due ordinanze cautelari del tribunale di Milano che inibiscono a Marsili (a pena di sanzioni) l’ulteriore uso del nome «Partito pirata» o della bandiera nera. Queste pronunce non aiutano i Pirati-teschio e la partecipazione a elezioni locali non preclude eventuali “bocciature” del segno; pesa però il fatto che i Pirati “ufficiali” non abbiano partecipato a precedenti elezioni e che le pronunce civili, per di più non di merito, difficilmente siano considerate in tema di simboli elettorali, retto da una disciplina specifica.

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Altro capitolo nutrito è quello delle lamentele di chi si ritiene “scippato” della propria denominazione. I media hanno dato spazio agli esposti della Lega Nord, che ha reagito alla presentazione di tre contrassegni, in particolare quelli di altre due leghe (Liga veneta Repubblica e Lega Padana di Rabellino) ritenendo che quel termine faccia parte del proprio patrimonio simbolico; l’Ufficio elettorale centrale nazionale presso la Corte di cassazione, tuttavia, già nel 2008 aveva stabilito che il termine «Lega» o la variante «Liga» avevano un significato generico e non poteva essere attribuito a qualcuno in esclusiva, negando anche che la titolarità privatistica del nome avesse rilievo in sede elettorale.

Si lagna tuttavia anche il movimento Fratelli d’Italia, costituito a Marsala nel 2007 e simboleggiato da un guerriero a cavallo su fondo blu e con base del cerchio tricolore: il simbolo non è confondibile con quello dell’omonima formazione di Crosetto e Meloni (che si ispira chiaramente all’emblema di An e secondo qualcuno non del tutto legittimamente), ma il problema è chiaramente dato dal nome, tanto più che la Meloni e Crosetto (come pure Micaela Biancofiore prima di loro) hanno ricevuto una diffida dal movimento Fratelli d’Italia che ha comunque presentato il contrassegno. Aver depositato il suo emblema dopo quello degli ex Pdl non aiuta ad avere tutela, la costituzione precedente non basta per vedere tutelata la propria posizione: in teoria il Viminale potrebbe chiedere a Meloni e Crosetto di modificare il simbolo (magari dando più risalto a Centrodestra nazionale come in origine), ma è più probabile che i funzionari ammettano entrambi i simboli elettorali in quanto graficamente diversi (è già successo, si veda nel 1994 il caso del Partito popolare italiano), a meno che non chiedano al movimento Fdi di differenziare di più il contrassegno.

Non sfugge la proliferazione di scudi crociati, due dei quali quasi identici (il primo della cd. Dc-Fontana, il secondo presentato forse dalla Dc-Pizza, distinti solo da un riflesso di luce); entrambi sono destinati a soccombere di fronte al simbolo dell’Udc. La Dc-Fontana reclama il proprio diritto a usare lo scudo, ritenendosi legittimata – secondo me non a ragione – da due sentenze civili della Corte d’Appello di Roma (2009) e della Cassazione (2010), ma non basta: l’articolo 14, comma 6 è chiaro nel tutelare i partiti rappresentati in Parlamento con un certo simbolo e ciò avverrà anche stavolta. Potrebbe invece passare l’esame senza problemi un altro movimento denominato Unione di centro (legato a Ugo Sarao), poiché era già stato depositato nel 1994 e la Cassazione ne aveva ammesso la coesistenza con l’Udc di Raffaele Costa: gli emblemi, in ogni caso, non sono confondibili.

Da ultimo, qualche simbolo sarà ricusato perché contiene immagini religiose, cosa che la legge vieta: è il caso delle formazioni Rsi – Nuova Italia (per una croce latina ben visibile) e Lista civica Militia Christi, per il Sacro Cuore in evidenza (mentre il cuore di Italia cristiana, negli anni più volte “censurato”, è già privo della croce e non avrà problemi). E se c’è ben poco da contestare sulla croce greca sul simbolo di «No alla chiusura degli ospedali», è molto probabile che riescano a superare l’esame del Viminale quei contrassegni che al loro interno contengono una croce sia pure “camuffata”, specie all’interno di una bandiera; probabile via libera anche per l’Unione cattolica italiana che, dopo essersi vista per anni “bocciare” le chiavi di san Pietro, ha sostituito la croce tradizionale con una “croce di sant’Andrea”, più difficile da leggere come segno religioso.

di Gabriele Maestri