Bocciati e ripescati: le decisioni sui simboli dei partiti

Con le decisioni dell’Ufficio elettorale centrale nazionale la fase relativa ai simboli dei partiti per le ormai prossime elezioni si è definitivamente chiusa. 14 dei 34 contrassegni in un primo tempo ricusati sono stati riammessi dopo la loro sostituzione (spesso consistita in alcuni piccoli interventi), mentre l’organo costituito presso la Corte di cassazione ha respinto tutte le 10 opposizioni presentate dai partiti, confermando di fatto le decisioni del Ministero dell’interno.

Niente da fare, dunque, per i contrassegni del Comitato Monti presidente (per cui Samuele Monti lamentava la propria esclusione a tutto vantaggio dei simboli legati a Mario Monti che per giunta in fila era subito dopo di lui) e per il movimento politico Fratelli d’Italia, di cui è portavoce Maurizio Cammalleri, che si era opposto alla sua ricusazione e all’ammissione di altri (più famosi) Fratelli d’Italia, quelli di Giorgia Meloni, Guido Crosetto e Ignazio La Russa, che secondo Cammalleri avrebbero scorrettamente usurpato il nome di un progetto politico già avviato da tempo.

I simboli ricusati in prima battuta dal Viminale

Nel primo caso i giudici dell’Uecn hanno riconosciuto che l’emblema legato a Samuele Monti era stato presentato al solo scopo di precludere l’uso di un emblema con lo stesso elemento caratterizzante – il cognome – a Mario Monti, il quale aveva già reso noto agli elettori il proprio emblema attraverso i media (lo stesso caso che aveva portato all’esclusione, ancora più clamorosa, dei contrassegni pressoché identici a quelli del MoVimento 5 Stelle e di Rivoluzione civile, che invece sono definitivamente esclusi, in assenza di opposizioni o sostituzioni di simbolo); nel secondo caso, è stata semplicemente applicata la regola prior in tempore potior in iure, poiché Fratelli d’Italia di Meloni è stata depositata per prima, mentre il preuso più o meno locale che effettivamente Cammalleri e altri hanno fatto di Fratelli d’Italia non è bastato a non far scattare il divieto di confondibilità sulla base dell’identità di «parole o effigi costituenti elementi di qualificazione degli orientamenti o finalità politiche connesse al partito o alla forza politica di riferimento anche se in diversa composizione o rappresentazione grafica». La stessa ragione non ha permesso di rientrare in corsa nemmeno al simbolo dell’Unione di centro di Cesare Valentinuzzi: quel contrassegno, in una forma più semplice, era già stato presentato nel 1994, ma il mancato uso per molto tempo non ha permesso di eliminare i problemi di confondibilità con l’Udc di Casini, rappresentata in Parlamento con quel nome e quella sigla.

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Niente da fare per i ricorsi della Lega Nord contro “Prima il Nord” (che sarà pure una denominazione di cui è titolare il partito, ma sul piano elettorale non interessa) e del Partito Pensionati contro i Pensionati e invalidi – Giovani insieme (la parola «Pensionati» è generica e non può essere appannaggio di una sola forza politica). Respinto il ricorso di Marco Lucio Papaleo, che aveva presentato l’emblema di Grande Sud (senza coalizioni) prima del depositante “ufficiale” Pippo Fallica (che aveva precisato la coalizione con il centrodestra), come pure quello delle tre Democrazie cristiane, che rivendicavano il loro diritto a partecipare con il loro contrassegno alle elezioni: per i giudici non erano rilevanti le sentenze sulla base delle quali ciascuna (la Dc-Pizza con Francesco Mortellaro, la Dc di Gianni Fontana e Alessandro Duce come ultimo segretario amministrativo della Dc “storica”) riteneva di avere titolo a usare quel simbolo, bensì il fatto che l’Udc è presente in Parlamento con lo scudo crociato da due legislature e i suoi elettori non meritano di essere confusi a questo giro. Opposizione respinta anche per il Movimento sociale italiano – Destra nazionale di Gaetano Saya (presieduto dalla moglie Maria Cannizzaro), sulla cui continuità con il “vecchio” Msi c’è molto di cui dubitare.

Se questo è il contenuto delle decisioni dell’Ufficio elettorale centrale nazionale – decisioni che, come ho detto all’inizio, accolgono integralmente le valutazioni già svolte dai funzionari del Viminale – ancora più interessante è analizzare i contrassegni che sono stati sostituiti, per vedere in concreto come sono state applicate le norme. Se, com’è stato detto, il simbolo più insidioso per il MoVimento 5 Stelle (quello presentato da Massimiliano Foti) è definitivamente escluso, hanno accettato di modificare il loro emblema altre tre formazioni: il Partito dei cittadini ha reso visibile il nome della candidata Fabiola Stella (prima scritto in giallo, mentre il cognome era molto evidente) e ha cancellato il «5°» che sormontava le altre parti testuali; la lista Voto di protesta – Diritto alla dignità ha cancellato la dicitura «BEPPEciRILLO.IT» e l’ha sostituita senza problemi con il T’ai Chi T’u, la rappresentazione dello yin e dello yang (e meno male, a questo punto, che non si è presentato Scilipoti…); Renzo Rabellino, infine, nella sua No Euro – Lista del grillo parlante ha accettato di ingrandire sensibilmente il termine «parlanti», poiché il Viminale non ha ritenuto sufficientemente distintivo l’uso del termine «grilli» rispetto al contrassegno del MoVimento 5 Stelle depositato in precedenza.

Per rimanere in tema di confondibilità, l’altro simbolo storicamente legato a Rabellino, Lega Padana, è stato riammesso dopo aver tolto dalla parte inferiore del contrassegno i disegni delle bandiere di Piemonte, Lombardia e Friuli: ciò probabilmente per evitare la confusione con l’Unione padana di Giulio Arrighini, che in quella stessa posizione aveva la croce di San Giorgio della bandiera lombarda (il fatto che non sia stata toccata l’espressione letterale, invece, mostra che per i funzionari del Viminale questa non creava problemi). Quanto ai due disegni di falce e martello ricusati in un primo tempo, il Partito comunista (già Comunisti sinistra popolare) di Marco Rizzo ha scelto di colorare in grigio lo sfondo prima bianco e di togliere invece il colore giallo al disegno dei due attrezzi (per scongiurare la somiglianza col simbolo – senza effetto – di Rifondazione comunista); è invece bastato “svuotare” il disegno degli utensili, lasciando solo il contorno rosso, per riammettere l’emblema dei Proletari comunisti italiani (considerato confondibile con il Partito comunista dei lavoratori, mentre la sigla Pci non è stata toccata).

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Più pubblicizzate le sostituzioni dei simboli della Lega Nord (è bastato togliere la maiuscola alla «M» centrale nel nome «TreMonti») e del “Partito Pirata” di cui è portavoce Marco Marsili: richiesto dal Ministero di togliere la vela nera e la denominazione «Partito pirata» – spettanti, in base a due ordinanze cautelari emesse lo scorso anno dal Tribunale di Milano – Marsili ha tolto la vela, ingrandito il jolly roger (il teschio con le due sciabole) e sostituito la dicitura precedente con «I Pirati», senza che questo possa creare ulteriori problemi di confondibilità con il Partito pirata “ufficiale”. Dopo la bocciatura del simbolo dell’epoca di Rauti (ricordava troppo una fiamma?), presenta un emblema del tutto diverso il Movimento idea sociale di Raffaele Bruno, per l’occasione ribattezzato «Rifondazione missina italiana» e simboleggiato dalla silhouette dell’Italia al centro di uno sfondo circolare di una bandiera tricolore sfumata ai bordi; qualcosa di simile fa anche Forza Italiani, che butta denominazione, bandiera nazionale al vento e arcobaleno per la dicitura «Riscossa nazionale» e il tricolore disposto su tre cerchi, leggermente sovrapposti.

La lista Noi consumatori – Liberi da Equitalia, alleata con il centrodestra, ha aggirato il divieto di uso di marchio (e i sospetti di un’istigazione all’evasione fiscale che avevano fatto bocciare anche No Gerit Equitalia e Forza evasori – Stato ladro, definitivamente esclusi) con l’espressione «Liberi per una Italia Equa» (inizialmente si era detto «Equa Italia», ma non dev’essere bastato ai funzionari) e assicurando la propria collocazione politica con un piccolo ma percettibile arcobalenino tricolore. Da ultimo, sono stati rimossi i simboli religiosi presenti in alcuni contrassegni: via dunque il sacro cuore da Militia Christi (è rimasta solo la versione con l’ancora), nonché la croce greca da Consortio vitae, da No alla chiusura degli ospedali (anche se a rigore era un segno sanitario e non religioso) e da Rsi Nuova Italia. Quest’ultimo caso, peraltro, interessa anche sotto un altro profilo nello studio dei simboli dei partiti, visto che nel nuovo emblema non solo manca la croce latina che era presente prima, ma al posto di «Rsi» è scritto «Una» e non c’è nemmeno più traccia dell’aquila che era parte dello stemma della Repubblica di Salò (ora resa, come idea, solo da due strisce tricolori che danno l’impressione delle ali spiegate): segno, a quanto pare, che anche quei due elementi sono stati considerati in violazione della XII disposizione finale della Costituzione che vieta la ricostituzione del partito fascista. L’interpretazione sembra un po’ lata, anche alla luce dell’interpretazione restrittiva che si dovrebbe dare della fattispecie (anche perché è da vedere che l’aquila, in quella rappresentazione, fosse davvero un’immagine di stampo fascista), ma il fatto che sia stata accettata la sostituzione rende meno problematico il caso.