Se la base vuole (ri)prendersi il Pd

Se la base vuole (ri)prendersi il Pd

Una giornata per “metterci la faccia”, per dare la possibilità agli iscritti e ai simpatizzanti del Partito democratico di esprimere i loro malesseri sullo stato e sulle azioni della loro formazione politica e le proposte per il futuro, proprio nella sede nazionale del Pd stesso: l’hanno voluta con convinzione alcune delle reti più significative della base democratica, in particolare INSIEME per il PD con il suo coordinatore Giuseppe Rotondo, assieme a FutureDem, Adesso Donne, Open PD Adesso, Innovatori Europei, AND, OccupyPD, BigBang NetDem. L’incontro si è concretizzato ieri, con il titolo INSIEME Riprendiamoci il PD e dai i presenti è venuto un monito preciso: il prossimo congresso del Pd è l’ultima occasione che il partito ha per salvarsi, se non mette insieme il meglio che ha (sono parole di Francesco Nicodemo) rischia di morire.

«L’idea del Partito democratico non è negoziabile, ma questo partito non è nato democratico; tutti coloro che hanno gestito il Pd finora, invece, sono assolutamente negoziabili, essendo persone sbagliate al posto giusto». In questa frase di Carlo D’Aloisio, il primo a intervenire a nome di Open PD, è contenuto il pensiero che gli intervenuti, ciascuno con le proprie sfumature, esperienze e delusioni, hanno maggiormente rimarcato. Il riconoscimento al valore dell’appartenenza è forte, ma con la stessa forza si vuole chiudere con le malepratiche come i pacchetti di tessere (quelli sì idealmente da bruciare) e con la gestione che il partito ha avuto finora: «Chi fino a oggi ha occupato certe cariche non deve poter essere rieletto lì, è un imperativo» esige Patrizia Cini di OccupyPd Roma, che rivendica apertura per il congresso, le regole e la commissione congressuale.

La sala conferenze del Nazareno è quasi piena, è un successo e dovrebbe essere una festa ma – ne sono tutti convinti – c’è poco da festeggiare e molto da ricostruire. «Sbagliare è umano – nota con realismo il deputato Sandro Gozi – ma il Pd ha dimostrato di essere diabolico, infilando più sconfitte per un numero infinito errori di comunicazione che ora ci costringono a governare con Brunetta, Schifani e Gasparri». Gozi, da sempre vicino a Romano Prodi, si dice preoccupato se il Professore dovesse lasciare il Pd, «ma lo sono ancora di più per quelli che se ne andrebbero con lui o hanno già lasciato il partito: l’unico modo per recuperarli è essere un partito aperto, in cui possano votare tutti quelli che davvero vogliono il Pd e lo amano». Due battute Gozi le riserva anche alla questione della leadership: da una parte guarda con favore alle primarie aperte, ma chiede che il segretario del partito sia anche il candidato alla guida del governo («Altrimenti, anche se si vince, non si riesce a reggere, come è capitato a Prodi»); dall’altra vede di buon grado anche la candidatura di Matteo Renzi, «ma meno pranza o cena con D’Alema, meglio è per tutti, perché abbiamo bisogno di un congresso competitivo, non consociativo».

Nella sala risuonano più volte le parole «merito» e «dignità», considerate troppo poco presenti nell’azione dei dirigenti: «I nativi del Pd – dice una ragazza, venuta espressamente da Rotterdam – sanno che quella del merito è la nuova lotta di classe, anche nel partito». Si rivendica trasparenza «sulle candidature, sulle risorse e soprattutto sulle fondazioni, ancora piuttosto nell’ombra» lamenta Giulio Del Balzo di FutureDem; pesa anche la scarsa o quasi nulla considerazione riservata alle articolazioni territoriali, anche in termini economici («Fassina dice che i contributi pubblici sono destinati ai circoli, allora dove sono finiti?» denuncia uno degli interventi).

Il maggior motivo di sofferenza, però, è la distanza tra la base e i dirigenti. Brucia ancora, forse più che la sconfitta, la bocciatura di Prodi al Quirinale: gli appartenenti alle reti sanno di essere ben più di 101, ma il problema rimane. Occorre ricominciare a parlare a chi si è chiamato fuori ad esempio «al 55% dei Romani che non è andato al ballottaggio» e, soprattutto, guardare ai problemi reali delle persone cercando di risolverli. Anche per questo occorre uno smart party, un partito “intelligente” che «sappia fare rete nei tanti territori che ora governa – precisa l’architetto Emilio D’Alessio – e si confronti in modo sereno e aperto», con meccanismi di partecipazione (come le primarie, i referendum interni e le assemblee aperte) che non facciano altro che attuare quanto è scritto nello statuto.

Passa per una manciata di parole chiave il nuovo sorgere di una visione e di una speranza per il Pd secondo la deputata Michela Marzano. C’è l’ascolto delle osservazioni, che «non è solo nei contenuti ed è sempre reciproco» ed è la base per comunicare bene, c’è il bisogno di usare in modo autentico le parole perché «l’unico modo di affrontare i problemi è cominciare a chiamarli col loro nome anche se ci fa male e spesso non ci riusciamo»; occorre valorizzare le competenze («Ma sembra quasi che nel Pd non ne siamo più capaci»); bisogna rimettere in primo piano idee e battaglie su contenuti concreti, a partire dalle lotte sui diritti.

Molto diretto sui temi più scottanti Aurelio Mancuso, di Equality Italia: «Per curare il Pd si parta dalle persone: niente partiti elitari, si dia spazio alle idee e alle reti di opinione»; per Mancuso, che considera l’eventuale accordo Renzi-D’Alema «un patto sciagurato», il problema non sono le correnti ma «il fatto insopportabile che la classe dirigente si autosostenga e che, cambiando i nomi, comandino sempre gli stessi». Interviene anche il segretario dei Radicali italiani, Mario Staderini, che individua tre potenziali terreni di azione che i democratici possono perseguire con varie forze: «Innanzitutto introdurre un sistema elettorale basato su collegi elettorali maggioritari, l’unico che rimetta al centro della scelta la persona; poi viene l’Europa, avendo ben chiara la prospettiva degli Stati Uniti d’Europa e del federalismo leggero che nel Pd Sandro Gozi propone da tempo». Da ultimo Staderini ha invitato il partito a ricollegare esigenze sociali a iniziative popolari, come proposte di legge e referendum, facendosi carico soprattutto dei quesiti sulle leggi Bossi Fini (flussi migratori) e Fini-Giovanardi (stupefacenti), leggi che «in questo contesto non verranno certo toccate».

Dopo varie ore, il messaggio dell’incontro è chiaro per tutto: per cambiare sul serio il Pd va (ri)costruito daccapo o almeno ristrutturato; è altrettanto palese però che serviranno uomini nuovi rispetto a chi, fin qui, non ha fatto nemmeno la manutenzione ordinaria.

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