Renzi, Bersani e il Popolo delle Salcicce

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Renzi, Bersani e il Popolo delle Salcicce

Qualche settimana fa alla Festa dell’Unità di Roma è avvenuto qualcosa di curioso. L’ex segretario nazionale del Pd Pierluigi Bersani, visitando le cucine e i ristoranti gestiti dai volontari del partito, ha ricevuto un’accoglienza calorosa all’insegna di striscioni con su scritto “Grazie Bersani” e cori come “Un segretario, c’è solo un segretario!”.

La cosa è curiosa per vari motivi. E non tanto perché, di fronte a militanti che da anni lavorano alle feste di partito nei mesi estivi, ci sarebbe da chiedersi (proprio per la tutela dei militanti stessi) “Grazie di cosa?” (elezioni perse, partito al minimo storico, trattative suicide per la scelta del Presidente della Repubblica ecc…). Ma perché la dinamica fa comprendere molte resistenze che gran parte della dirigenza e parte della base di partito nutre nei confronti di Matteo Renzi.

Partiamo dall’inizio: per quanto si parli costantemente di rottamazione la candidatura di Renzi alle elezioni primarie del 2012 non emerge tanto per un mero tema di carattere anagrafico. Ma per un problema di linea politica. Cogliendo lo scivolamento del Pd d’impronta bersaniana su posizioni massimaliste e a tratti “molto di sinistra” (basti pensare alla nascita della componente dei cosiddetti “Giovani Turchi”) Renzi ha capito che c’era uno spazio politico per una sua candidatura e una sua proposta politica. Questo però ha portato ad una situazione in cui, a parte qualche eccezione, tutto il partito sosteneva Bersani mentre Renzi doveva puntare molto sulle strutture e le sensibilità esterne a questa dinamica. Essendo nata la candidatura di Renzi a seguito della vicenda di cui sopra, lo stesso Renzi (isolato da un partito che considerava troppo massimalista) si è trovato a dover estremizzare la sua proposta politica. Un esempio su tutti: il suo principale consigliere economico nel corso delle elezioni primarie Luigi Zingales, per quanto proveniente da un ateneo e da una scuola di pensiero economico affascinante, essendo un componente della cosiddetta “Scuola di Chicago” non può dirsi tecnicamente un economista di centrosinistra.

Come se, banalizzando al massimo, alla critica renziana nei confronti di un eccesso di keynesismo debba erroneamente corrispondere una forma di liberismo quasi scevro da ogni tipo di correzione.

L’isolamento renziano nel partito però non ha portato solo a conseguenza di questo tipo. Ma anche a degli effetti collaterali legati alla base dello stesso Pd. Infatti Pierluigi Bersani ha cercato di porsi, nell’immaginario degli iscritti al partito, come l’uomo del partito. Quello del partito pesante, dei circoli, delle sezioni, delle comunità locali e delle feste di partito.

Un immaginario che ha fatto breccia nella base (anche a causa di deficit comunicativi di Renzi: per anni non si è riuscito a togliere di dosso la nomea dell’”Uomo di Arcore”) ma che in realtà si basa sul nulla. E non tanto perché la linea politica di Bersani si è dimostrata alla lunga perdente su tutta la linea. Ma anche sulle cose concrete. Qualche esempio: Bersani ha sempre portato avanti, sin dalle primarie 2009, il mito del partito pesante. E’ obbligatorio ricordare però che nel corso della sua segreteria, la più lunga della storia del partito, non solo si è registrato il minimo storico elettorale per il Pd. Ma anche un consistente calo dei circoli territoriali, delle loro attività e soprattutto dei tesserati. Al tempo stesso Bersani, nonostante gli applausi alla festa del partito, non si è mai degnato di servire o di prestare qualche minuto di lavoro nelle tanto mitizzate kermesse estive. Servì una sera Dario Franceschini, proveniente da tutt’altra cultura politica, nel corso della Festa Democratica Nazionale a Genova nel 2009. Non si è mai visto un atteggiamento di questo tipo per Bersani a Torino nel 2010, a Pesaro nel 2011 e a Reggio Emilia nel 2012.

Al tempo stesso, per quanto Bersani e gran parte della base si rifaccia all’esperienza storica e politica del Pci, bisogna ricordare due aspetti tecnici che non rendono la sua esperienza politica come “di continuità” nei confronti dei vari passaggi Pci-Pds-Ds-Pd. In primo luogo Bersani è stato il primo segretario nazionale della storia della sinistra italiana a non iscriversi, come era da sempre prassi, in un circolo territoriale del partito romano restando per tutto il periodo della sua segretaria iscritto a Piacenza. Ricordiamo infatti che Berlinguer era iscritto al circolo di Ponte Milvio e lo stesso Franceschini, ferrarese, era iscritto a Roma nei mesi della sua segreteria nazionale. Bersani, per motivi legati al suo domicilio, avrebbe dovuto iscriversi presso il circolo Pd di via dei Giubbonari di Roma, a due passi di Campo dè Fiori. Non si è però mai iscritto e non è nemmeno mai entrato nei locali della sede, se escludiamo una breve cerimonia all’esterno dell’ex sezione per festeggiare le dimissioni di Berlusconi nel novembre 2011.

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Al tempo stesso Bersani, per quanto acclamato dalle feste come l’unico uomo del partito, ha un profilo politico che, giusto per fare un esempio, non gli avrebbe mai consentito di diventare segretario del Pci. Infatti i segretari del Pci provenivano tutti dal “Regno di Sardegna”: o Piemonte, o Liguria o Sardegna. L’Emilia-Romagna, proprio essendo la regione dove il Pci prendeva il maggior numero di voti, non ha mai indicato un suo uomo alla guida del partito in quanto essendo una regione amministrata fin troppo bene non era un terreno favorevole per la formazione di personale politico altamente carismatico, accontentandosi di formare sempre e solo ottimi amministratori e uomini-macchina.

Infine giusto segnalare come Bersani abbia vinto le primarie del 2012 in tutte le regioni eccetto Toscana ed Emilia. Due regioni “rosse” che guarda caso hanno voltato le spalle alla linea di Bersani preferendo l’opzione riformista e renziana. Ed ancor più indicativo risulta essere il fatto che l’ex segretario Pd abbia ottenuto le sue affermazioni più nette in ex feudi democristiani come Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia.

Bersani dunque non può per niente dirsi in continuità col “popolo delle salcicce”. Sia perché dal punto di vista culturale e politico rappresenta un ritorno al passato, per un tradizione politica da sempre propensa alla trasformazione e al rinnovamento, sia perché i suoi comportamenti pratici (che abbiamo cercato di analizzare in questo articolo) sono stati tutt’altro che da “partito pesante”.

L’insegnamento però non può che essere quello secondo cui Renzi ha ancora molto da imparare sul fronte della comunicazione politica in quanto appare come una persona ostile alle dinamiche del partito pur essendo ben più in continuità con la storia della sinistra italiana rispetto a Bersani. Anche per il solo fatto che, da riformista, rappresenta uno dei tanti motivi per cui la sinistra italiana, in una fase della sua storia, scelse di abbandonare le casacche del passato per aderire e fondare il Partito Democratico.

Il tema non è dunque “la base è stata ingannata da un tale che, dicendo di essere come loro, era di tutt’altra pasta” (addirittura uno che non sarebbe potuto mai diventare segretario del Pci!) ma è “Renzi dovrebbe essere amato e in grado di vincere nel partito”.

Un modesto consiglio, anche se so già che la proposta verrebbe cassata dai puristi della comunicazione, che darei a Renzi allora è il seguente: studiarsi bene il calendario, acquistare un biglietto del treno per Genova e servire, nell’ambito della festa nazionale del Pd, per 30-45-60 minuti (quanto vuole lui, insomma) al ristorante gestito da volontari. Può anche limitarsi a spillare le birre o di fiancheggiare il decano della festa alla cassa.

Ma dimostri che se si è fatto nascere il Pd è proprio per gente come lui. E che quella storia non deve necessariamente essergli del tutto estranea.