La missione impossibile di Epifani

Il Pd ed Epifani. Manca ormai meno di una settimana ad un turno di elezioni amministrative all’insegna della provvisorietà. La provvisorietà che caratterizza il governo – in balia di veti incrociati – ma soprattutto il partito di maggioranza relativa.

Il Partito Democratico della guida di Guglielmo Epifani vive questi giorni allo stesso modo in cui i deputati democristiani vivevano le ore immediatamente all’indomani del voto dell’aprile 1992. Le correnti che si chiudono a riccio, il ricordare che comunque si è sempre il partito di maggioranza relativa nel Parlamento, lo sperare di risollevare la situazione affidandosi ad un traghettatore (allora Martinazzoli) per poi arrivare in lidi più sicuri con una guida “forte”.

Ma il traghettatore, oggi come allora, è espressione proprio dei mali che hanno portato il Pd ad essere quello che è: il risultato della volontà di un cerchio ristretto di dirigenti nazionali. Una nomina arrivata dopo conciliaboli ristretti, dopo confronti serrati tra mediatori di correnti (innumerevoli e che aumentano di giorno in giorno).

Inoltre, all’esterno, è quantomeno riduttivo cercare di recuperare il consenso della “società civile” affidandosi ad un ex sindacalista che ormai rappresenta idealmente solo una ridotta parte di società: pensionati e quadri delle pubbliche amministrazioni, non a caso profili che compongono il 70% (arrotondando per difetto) degli attuali iscritti ai sindacati (e, non a caso, gran parte dell’elettorato del Pd alle politiche del febbraio scorso).

Epifani quindi, più che un maestoso e poetico Caronte, può essere paragonato ad un molto più prosaico tassista, impegnato a guidare la macchina Pd su di un ponte strettissimo, con ai due lati i burroni Pdl e M5S.

Ma come uscirne? Ecco, l’ennesimo problema del Pd sta nel fatto che le attuali risposte in ottica futura sono espressione anch’esse dei mali dei democratici. Perché Matteo Renzi arriva – nonostante la “verginità mediatica” – anche lui da un cursus honorum politico percorso all’insegna della spartizione matematica tra PPI e PDS prima e tra Margherita e DS poi (in entrambi i casi come espressione della componente centrista). La sua destrezza è stata quella di saper prima sfruttare le fratture interne ai DS a livello locale, poi le debolezze di una dirigenza troppo impegnata a consolidare le posizioni acquisite a livello nazionale.

Il tutto con efficaci campagne di marketing politico che hanno avuto il pregio di ‘accarezzare’ sempre il populismo (lo slogan della rottamazione in primis) senza mai cadere nel turpiloquio (di stampo leghista prima, pentastellato poi). Gesti che hanno facilmente imposto Renzi all’attenzione nazionale, perché quasi privo di contenuti partitico/ideologici. E non è un caso che le critiche arrivate a Renzi, tra l’altro personalmente sulla sua bacheca Facebook, siano giunte nelle ore del suo avallo al nome di Prodi, espressione – per i “renzichenecchi” (termine ripreso da una ricerca dell’Università di Cagliari, dato ai “fedeli” renziani già nel lontano 2009) – di una politica vecchia, lontana dall’immagine costruita mattone su mattone dall’attuale sindaco di Firenze.

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Il tutto avallato ed aiutato da un debole Bersani, che ha imposto, in occasioni delle primarie dello scorso novembre, regole quasi fantozziane per cercare di arginare l'”egomostro” fiorentino. Una concatenazione di errori che trova il suo vertice nella decisione di ammanettarsi – mani e piedi – al timone della “Perla Nera” berlusconiana, cioè il governo Letta.

Quindi, cosa rimane? Rimangono i “cespugli”: i gruppi vicini a singoli personaggi che si sono apertamente smarcati (come i vari Puppato o Civati), rimangono i giovani di OccupyPd (che, comunque, sono cresciuti in formazioni giovanili – prima Sinistra Giovanile poi Giovani Democratici – dove i blocchi interni si muovono ad immagine e somiglianza del Pd) e quelli che, sconfitti, iniziano a guardarsi intorno, vedendo Fiom, SeL ed il Movimento Cinque Stelle appropriarsi di quelle piazze un tempo orgoglio del centrosinistra.

Da dove ripartire? Non dai bocconiani – per carità, l’Italia ha già pagato questo pegno – ma molto più realisticamente da quelle parti della famosa ‘base’ che nella realtà ci vive davvero, e che non rincorre hashtag, poltrone delle fondazioni o che ride alle performance di Maurizio Crozza, senza capirne minimamente il significato.