Partito Democratico cambiare per non morire

Partito Democratico: Bersaniani, Veltroniani, Dalemiani, Franceschiniani, Lettiani, Bindiani, Giovani Turchi, Ecodem, Teodem, Popolari, Prodiani, Renziani. Sembrano nomi di alieni, di creature che provengono da strani pianeti. E invece no.  Sono una parte (!) delle correnti del Partito democratico, perché sicuramente ne ho dimenticata qualcuna.

Una volta, qualche mese fa, lessi su un giornale nazionale che nel Pd c’erano addirittura ventitre (avete capito bene, 23) correnti: io qui ne ho elencate solo dodici, le maggiori, ma, visto che esistono anche le correnti delle correnti (es. i Mariniani dentro i Popolari) si fa presto ad arrivare a ventitre.

E dunque. Come può un partito esistere, vivere, respirare, dialogare con la sua base, se è fratturato in decine di correnti? Se invece di porsi come punto di riferimento e di innovazione per la società, si struttura e si ingegna per distribuire posti di comando ad ogni capo o capetto, così da non scontentare alcuno? Eppure l’avventura era cominciata bene. Ricordo ancora il discorso fondativo del partito, estate 2007, al Lingotto di Torino, tenuto da Walter Veltroni, che da lì a pochi mesi sarebbe stato incoronato segretario dalle primarie.

L’ex sindaco di Roma, per la prima volta nella sinistra, parlò un linguaggio chiaro, pulito, innovativo, superando le contrapposizioni tra vecchie identità: Ds e Margherita, ex-comunisti ed ex-democristiani non dovevano più trovare spazio, nel partito nuovo, solo in quanto “ex”.

La loro “mission” era una e una sola: superare le vecchie appartenenze ideologiche e contribuire alla formazione della nuova identità politica del centrosinistra riformista. L’identità Democratica. Solo così il progetto avrebbe avuto un senso.

Alcuni dicono che Veltroni fosse stato intempestivo e quel discorso, di grande respiro, avesse segnato l’inizio della fine del governo Prodi. Forse è vero. Ma non è altrettanto vero che la vecchia Unione rappresentava l’esatto contrario di ciò per cui era nato il Pd? La litigiosità, la frammentazione, l’incapacità di comunicazione, l’antiberlusconismo come unico collante, il riformismo continuamente castrato dalle pulsioni estremistiche di parte della coalizione? Lo scopo del Pd era superare tutto questo, dando finalmente all’Italia, che non l’aveva mai avuto, il suo primo “partito riformista di massa.”

Purtroppo, nel giro di pochi mesi, gli eventi degenerarono: l’Unione, sempre più dilaniata al suo interno, esplose definitivamente, Mastella tolse la fiducia e il governo cadde al Senato, aprendo la strada a nuove elezioni, nelle quali il Pd colse un lusinghiero 33% dei consensi (suo massimo storico), ma comunque non sufficiente ad impedire la terza vittoria berlusconiana.

Da quella sconfitta il Pd non si riprese mai veramente: Veltroni non dimostrò il coraggio necessario per andare fino in fondo, permettendo alle logiche correntizie di riprendere il sopravvento e di costringerlo alle dimissioni. La leadership passò a Pierluigi Bersani, brava persona, ottimo ministro, ma del tutto inadeguato a ricoprire la carica di leader.

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Il resto è storia di questi tempi: l’occasione di cambiare sul serio sprecata nelle primarie dello scorso novembre, la non vittoria nelle ultime elezioni, il siluramento di Prodi alla Presidenza della Repubblica, il governo insieme al Pdl.

E adesso? Per il Pd la scelta è dirimente e andrà fatta una volta per tutte durante il congresso d’autunno: o andare avanti su questa strada, tollerare le onnivore correnti, decretare la propria morte politica e la fuga degli elettori, oppure riprendere quel filo bruscamente spezzato nel 2008, affidandolo, questa volta, ad una nuova generazione, i cosiddetti “nativi democratici”, e soprattutto, ad un nuovo leader.  Tutti sanno chi.