Partito Democratico cambiare per non morire

Pubblicato il 25 Maggio 2013 alle 19:49 Autore: Alessandro Genovesi

Partito Democratico: Bersaniani, Veltroniani, Dalemiani, Franceschiniani, Lettiani, Bindiani, Giovani Turchi, Ecodem, Teodem, Popolari, Prodiani, Renziani. Sembrano nomi di alieni, di creature che provengono da strani pianeti. E invece no.  Sono una parte (!) delle correnti del Partito democratico, perché sicuramente ne ho dimenticata qualcuna.

Una volta, qualche mese fa, lessi su un giornale nazionale che nel Pd c’erano addirittura ventitre (avete capito bene, 23) correnti: io qui ne ho elencate solo dodici, le maggiori, ma, visto che esistono anche le correnti delle correnti (es. i Mariniani dentro i Popolari) si fa presto ad arrivare a ventitre.

E dunque. Come può un partito esistere, vivere, respirare, dialogare con la sua base, se è fratturato in decine di correnti? Se invece di porsi come punto di riferimento e di innovazione per la società, si struttura e si ingegna per distribuire posti di comando ad ogni capo o capetto, così da non scontentare alcuno? Eppure l’avventura era cominciata bene. Ricordo ancora il discorso fondativo del partito, estate 2007, al Lingotto di Torino, tenuto da Walter Veltroni, che da lì a pochi mesi sarebbe stato incoronato segretario dalle primarie.

L’ex sindaco di Roma, per la prima volta nella sinistra, parlò un linguaggio chiaro, pulito, innovativo, superando le contrapposizioni tra vecchie identità: Ds e Margherita, ex-comunisti ed ex-democristiani non dovevano più trovare spazio, nel partito nuovo, solo in quanto “ex”.

La loro “mission” era una e una sola: superare le vecchie appartenenze ideologiche e contribuire alla formazione della nuova identità politica del centrosinistra riformista. L’identità Democratica. Solo così il progetto avrebbe avuto un senso.

Alcuni dicono che Veltroni fosse stato intempestivo e quel discorso, di grande respiro, avesse segnato l’inizio della fine del governo Prodi. Forse è vero. Ma non è altrettanto vero che la vecchia Unione rappresentava l’esatto contrario di ciò per cui era nato il Pd? La litigiosità, la frammentazione, l’incapacità di comunicazione, l’antiberlusconismo come unico collante, il riformismo continuamente castrato dalle pulsioni estremistiche di parte della coalizione? Lo scopo del Pd era superare tutto questo, dando finalmente all’Italia, che non l’aveva mai avuto, il suo primo “partito riformista di massa.”

Purtroppo, nel giro di pochi mesi, gli eventi degenerarono: l’Unione, sempre più dilaniata al suo interno, esplose definitivamente, Mastella tolse la fiducia e il governo cadde al Senato, aprendo la strada a nuove elezioni, nelle quali il Pd colse un lusinghiero 33% dei consensi (suo massimo storico), ma comunque non sufficiente ad impedire la terza vittoria berlusconiana.

Da quella sconfitta il Pd non si riprese mai veramente: Veltroni non dimostrò il coraggio necessario per andare fino in fondo, permettendo alle logiche correntizie di riprendere il sopravvento e di costringerlo alle dimissioni. La leadership passò a Pierluigi Bersani, brava persona, ottimo ministro, ma del tutto inadeguato a ricoprire la carica di leader.

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L'autore: Alessandro Genovesi

Classe 1987, laureato in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Udine, è da sempre appassionato di politica e di giornalismo. Oltre ad essere redattore di Termometro Politico, collabora con il quotidiano Il Gazzettino Su twitter è @AlexGen87
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